Moschea Dionigi
Poche parole, le stesse da anni, pronunciate dall’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi a pochi giorni dalla fine del Ramadan, “le istituzioni civili milanesi devono garantire a tutti la libertà religiosa e il diritto di culto. I musulmani hanno diritto a praticare la loro fede nel rispetto della legalità” e le polemiche sono ripartite, le stesse da anni. Chi accusa la chiesa di connivenza con l’infedele, chi accusa le istituzioni di vessazioni xenofobe.
Poche parole, le stesse da anni, pronunciate dall’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi a pochi giorni dalla fine del Ramadan, “le istituzioni civili milanesi devono garantire a tutti la libertà religiosa e il diritto di culto. I musulmani hanno diritto a praticare la loro fede nel rispetto della legalità” e le polemiche sono ripartite, le stesse da anni. Chi accusa la chiesa di connivenza con l’infedele, chi accusa le istituzioni di vessazioni xenofobe. L’unica novità in cronaca, quest’anno, è la proposta del vicesindaco, Riccardo De Corato, di un referendum, perché “la questione investe direttamente la sicurezza di Milano e dello stato”. La moschea di Milano è una questione religiosa e culturale cruciale, e allo stesso tempo un tormentone politico infinito. Anche perché la materia è complessa. Innanzitutto il nome. A Milano di moschea c’è n’è solo una, in via Meda, in cui si radunano gli islamici moderati del Coreis. Un’altra è nel comune di Segrate; sono le poche d’Italia, con Roma e Catania. I nomi noti di viale Jenner, via Quaranta o via Padova corrispondono ufficialmente a Centri culturali islamici nei cui locali – capannoni o scantinati malandati e insufficienti, in precarie condizioni igieniche – si ritrova per la preghiera del venerdì parte della popolazione musulmana cittadina (centomila persone). Una parte sola: il 3 per cento secondo De Corato, il 10-20 secondo altre fonti, perché non tutti gli islamici, a partire dalle donne, li frequenta.
La necessità è del resto riconosciuta anche da chi non ha nessun pregiudizio sull’islam. Spiega ad esempio Martino Pillitteri, coordinatore di Yalla Italia, la rivista dei giovani islamici di seconda generazione: “In via Quaranta non vanno i giovani: perché hanno tagliato con l’islam tradizionale ed etnico che vedono e sentono lì. E non ci va nemmeno quella fascia di musulmani moderati, integrati che non ama mescolarsi in ambienti, pure brutti e maltenuti di quel tipo”. E’ per questo che una moschea, masgari bella, sarebbe importante, per Pillitteri: “Potrebbe contribuire a rompere quel mondo chiuso”. Ma aggiunge, occorre “una serie di prerequisiti, tra cui che le prediche del venerdì siano riprese e trasmesse sottotitolate in Internet”. E a chi obietta che questo è un atteggiamento discriminante? “Rispondo che questo islam costituisce di fatto un’eccezione, e come tale va trattato”. Posizioni su cui concorda anche Branca, che ritiene però il problema innanzitutto politico: “Tettamanzi ha fatto solo una petizione generale e in ogni caso la chiesa è contraria ad aperture indiscriminate, come anche all’insegnamento dell’islam a scuola. E’ la politica che, evidentemente, preferisce non risolvere il problema”