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Ma Cameron ce la farà o no?

Antonio Gurrado

Probabilmente preferirà evitarlo, ma David Cameron potrebbe festeggiare i suoi primi cento giorni da primo ministro appendendo nel suo ufficio di 10 Downing Street la copertina con cui l’Economist celebrava l’evento due settimane fa. Cameron vi appariva di profilo in bianco e nero, sortendo un notevolissimo contrasto col fondo giallo paglierino e soprattutto con la cresta punk di capelli tinti coi colori dell’Union Jack che un fotomontaggio estremo gli sistemava in testa.

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Probabilmente preferirà evitarlo, ma David Cameron potrebbe festeggiare i suoi primi cento giorni da primo ministro appendendo nel suo ufficio di 10 Downing Street la copertina con cui l’Economist celebrava l’evento due settimane fa. Cameron vi appariva di profilo in bianco e nero, sortendo un notevolissimo contrasto col fondo giallo paglierino e soprattutto con la cresta punk di capelli tinti coi colori dell’Union Jack che un fotomontaggio estremo gli sistemava in testa. Il titolo spiegava tutto, recitando “Radical Britain: il più ardito governo occidentale”. Agli scoppiettanti esordi di Cameron erano dedicati un editoriale e un dossier di tre pagine. Favorito indubbiamente dal sistema politico britannico che consegna ai premier “poteri quasi dittatoriali”, argomentava l’Economist, Cameron s’è rivelato leader di rottura più di Barack Obama, di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel.

Eppure a prima vista lo si sarebbe escluso, considerando che il personaggio Cameron – giovane aristocratico prodotto delle scuole più esclusive del Regno – rappresentava una figura molto meno inusuale di quelle costituite dai suoi tre colleghi. Questo gli conferisce un’aria da “rivoluzionario inverosimile”, nelle parole del settimanale che sottolineava la sua “audacia” nel mettere alla frusta la coalizione con i Liberal-Democratici “per revisionare l’intero stato britannico: le scuole, il sistema sanitario, la polizia e le politiche sociali”. Più che dalla copertina Cameron avrà indubbiamente tratto piacere dal leggere che “era dai tempi di Margaret Thatcher che un governo non mostrava tanta premura nel fare un sacco di roba”.

C’è però da scommettere che questa copertina punk troverà spazio nell’ufficio che a 10 Downing Street si trova alla sinistra di quello in cui si riuniscono i ministri. Lo occupano le menti della campagna elettorale dei due partiti usciti rocambolescamente vittoriosi dalle elezioni. La stratega dei Lib-Dem è Polly MacKenzie; ha ventinove anni ed evidentemente credeva talmente poco nella vittoria elettorale da aver programmato le nozze per i giorni in cui sarebbe andato formandosi il governo. Travolta dagli eventi e chiamata a essere la longa manus di Nick Clegg, ha dovuto rimandare il matrimonio a data da definirsi. Di fronte a lei siede Steve Hilton, 41 anni, nel quale tutti ormai riconoscono l’artefice del cameronismo. Hilton è l’uomo che ha inventato il concetto di “big society”, capovolgendo la notoria affermazione della Thatcher secondo la quale “there is no such thing as society”. In realtà all’inizio Hilton non pensava a una contrapposizione netta al thatcherismo, quanto a una formula efficace per rinfacciare ai laburisti il loro eccessivo statalismo. La sua “big society” è il contraltare del “big government”.

Il suo progetto è illustrato nelle mail
di indottrinamento interno trapelate integralmente sul blog “Westminster” del Financial Times. A pochi mesi dalle scorse elezioni il computer di Hilton ha diffuso a scadenze regolari indicazioni riguardo ai temi caldi su cui conveniva insistere e una lettura complessiva di questi cinque bollettini strategici, che vanno da ottobre a dicembre 2009, restituisce in tutta la sua immediatezza il manifesto di Hilton al quale Cameron ha dato credito pressoché illimitato.
L’ispirazione iniziale deriva da Elinor Ostrom, allora freschissima vincitrice del Nobel per l’economia. Nelle sue teorie Hilton trovava approvazione e incoraggiamento per la propria intemerata antistatalista volta a contrapporre al controllo governativo la responsabilità sociale quale motore stabile del progresso. Per rendere solida la società, Hilton ritiene che la trasparenza sia fondamentale. Gli elettori sono un pubblico al quale il governo deve rendere conto di ogni sua azione: costoro collaboreranno più volentieri con uno stato che sentiranno proprio, che a sua volta potrà tagliare più agevolmente le spese inutili e migliorare la qualità dei servizi pubblici. Poiché la massima trasparenza va garantita con una comunicazione sempre più tecnologizzata, che darà ai cittadini l’idea di essere tutti equidistanti dal potere centrale, Hilton immagina un’età dell’oro neanche tanto lontana, che chiama “era post-burocratica”.
La parte più visionaria dei bollettini di Hilton risiede però nel cambiamento interno al partito, il cui scopo consiste “nel conseguire risultati progressisti (ad esempio ridurre la povertà) per mezzo di strumenti conservatori (ad esempio la decentralizzazione delle risorse)”.

Il suo sogno è il “conservatorismo progressista”, ossimoro potenzialmente pericoloso agli occhi dei fedelissimi, reso più potabile da David Cameron sotto il nome di “new conservatism”. Resta saldo l’impegno a eliminare ampie sacche di povertà basandosi su tre tradizionali pilastri dei tory: la famiglia, l’istruzione e il lavoro. Quando la maggioranza dei nuclei sociali potrà fare completo affidamento su queste tre basi, inizierà a sorgere la “big society”, secondo un procedimento che non sarà né facile né immediato e che come tale avrà bisogno di un impulso decisivo da parte del governo. Questo dovrà intervenire favorendo le aggregazioni locali e stimolare l’azione collettiva dando sempre più potere in mano alle piccole comunità. Nelle sue circolari Hilton scrive chiaramente che la “big society” è la terza via virtuosa fra “big government” e “no government”.
Un po’ visionario e un po’ santone, Steve Hilton tende a far notizia soprattutto come personaggio. Il suo stipendio è tuttora argomento dibattutissimo – chi dice novantamila sterline all’anno, chi rilancia a 180 mila, chi favoleggia di 270 mila. Il grande pubblico lo riconosce facilmente anche se magari non ne ricorda bene il nome: nella trasmissione comica di Bbc 2 “The thick of it” l’attore Vincent Franklin ha conseguito notevole successo nel ruolo di Stewart Pearson, non meglio definito guru delle relazioni pubbliche dell’opposizione. Questo Pearson somiglia fin troppo a Hilton: è calvo, indossa occhialini trendy e rovescia continuamente nel cellulare un grammelot manageriale. Gli autori del programma spiegano che “il suo lavoro consiste nel rendere il suo partito più accettabile agli occhi degli elettori, mostrandosi loro in abiti casual ed evitando di impegnarsi su qualsiasi contenuto politico che possa deludere chicchessia”. Gli abiti casual sono il marchio di fabbrica di Hilton. Pare che Cameron, in un momento di sconforto, si sia lasciato sfuggire che prima o poi si deciderà a regalargli giacca e cravatta. Invece Hilton appare sovente in maglione e pantaloncini corti (anche nei mesi meno clementi); ma più spesso non appare affatto, poiché si vocifera che lavori soprattutto di notte e che l’ora più verosimile in cui ricevere una sua mail siano le tre del mattino. Indubbiamente Hilton cerca di razzolare come predica: il look informale simboleggia il modo in cui vorrebbe veder trasformato un partito che ai suoi occhi è sempre stato troppo ingessato per attirare voti oltre lo zoccolo duro.

Dietro Cameron che legge in metropolitana, fa jogging sotto la pioggia o va al lavoro in bici c’è la sagacia tattica del suo comunicatore di fiducia. Dal giorno del 2005 in cui l’attuale primo ministro è apparso nella vita politica, Hilton ha cercato di trasformare i tory trasformando Cameron a propria immagine. C’è riuscito fino a un certo punto: al seguito del leader pedalante fa spesso capolino l’auto blu che gli porta le borse. Tuttavia il concetto dell’impegno ecologico del “new conservatism” è passato, con estrema soddisfazione dello spin doctor che alle elezioni del 2001 dichiarò tutto soddisfatto di aver votato per i Verdi. Lui stesso è ovviamente un patito della bicicletta, ma a gennaio il Daily Mirror gli ha messo un inviato alle calcagna scoprendo che passa volentieri col rosso e che, se la strada è ingombrata, non si fa scrupolo di trasformare i marciapiedi in piste ciclabili. E’ il sintomo della poca simpatia che la stampa nutre nei suoi confronti. Non c’è articolo in cui non si ricordi il suo arresto alla stazione di Birmingham nel 2008, quando andando di fretta non trovò in tempo il biglietto e apostrofò quale “segaiolo” il controllore che gli aveva impedito di saltare sul treno. Decisamente non un capolavoro di comunicazione. Perfino il Daily Telegraph, abitualmente vicino ai tory, lo ha definito “un Rasputin da mezzo litro” omaggiando la sua statura non propriamente slanciata e, probabilmente, le sue origini esotiche: i genitori di Hilton erano inservienti ungheresi a Heathrow e il cognome del padre originariamente suonava Hircksack. Infastidisce magari la sua capacità di raggiungere livelli sociali inimmaginabili: sua moglie è Rachel Whetstone, attualmente pezzo grosso di Google e già consigliera di Michael Howard, nonché amica di lunghissima data di Cameron (e, cosa meno piacevole, ex partner del Visconte Astor, attuale marito della madre della first lady). Lei e Hilton sono stati padrini di battesimo di Ivan, il primogenito di Cameron morto lo scorso anno.

Dopo la vittoria mutilata alle elezioni, su Hilton s’era appuntata la critica dei tory più tradizionalisti come Tim Montgomerie, che non perde occasione per incolpare della mancata maggioranza chi aveva insistito troppo sul concetto di “big society”, “che non aveva fatto breccia nel cuore dei nuovi elettori spaventando alcuni dei vecchi”. Maggiorenti anonimi del partito avevano bollato come “nonsense” la propaganda di Hilton; ma a seguito della faticosa formazione del governo gialloblu, la sua presenza a Downing Street rendeva plausibile che il gabinetto Cameron partisse fortissimo nel tentativo di passare alla storia mettendone in pratica le rivoluzionarie idee. Questa almeno era la scommessa di Cameron; ci sta davvero riuscendo? Il Foglio ha organizzato una ronda di opinioni fra esperti britannici.
L’influente blogger e conduttore radiofonico Iain Dale ritiene che “i primi cento giorni di Cameron siano stati caratterizzati dall’iperattività. La coalizione ha un programma ben chiaro che ha perseguito senza requie, ridimensionando alcuni settori del governo in maniera tale da convincere gli elettori che c’è bisogno di tagli drastici alla spesa pubblica”. Cameron, sancisce Dale, “è stato molto più radicale di quanto fu la Thatcher nei suoi primi cento giorni; intende dimostrare quanto sia determinato ad evitare l’errore di Blair, che rimandò il momento di affrontare la questione del settore pubblico”. Christina Patterson dell’Independent ha dedicato al centesimo giorno di Cameron una pagina graffiante; al Foglio spiega come “si ritenga che dietro il premier pragmatico stia emergendo il premier ideologico. Personalmente non lo ritengo vero. Cameron desiderava diventare primo ministro, gli piace immensamente esserlo, e ritiene che un primo ministro debba essere energico e riformatore. Inoltre capita che le idee di Hilton sulla ‘big society’ coincidano con il bisogno che ha Cameron di tagliare la spesa pubblica e con le sue convinzioni riguardo a uno stato ridimensionato, proprie di tutti i conservatori – con la c minuscola”. Christina Patterson trova “ironico che un pragmatico che prima di diventare leader dei tory non aveva una visione appassionata della politica possa diventare il premier più radicale degli ultimi tempi, riuscendo probabilmente a conseguire molti risultati in tempi relativamente brevi – anche se bisognerà vedere se le sue riforme saranno o meno un bene per la Gran Bretagna”.

Andrew Gamble, capodipartimento di Scienze Politiche a Cambridge, conferma che “nei primi cento giorni i tory si sono rivelati più radicali di quanto ci si aspettasse. Alcune delle loro iniziative, ad esempio la riforma del sistema sanitario, non erano né nel loro programma né in quello sottoscritto dalla coalizione di governo; ma hanno colto l’opportunità del deficit e dell’alleanza coi Lib-Dem per puntare a una ristrutturazione estrema dello stato. Resta da vedere quanto radicali saranno all’atto pratico: il governo ha già battuto in ritirata in alcuni settori da cui si sono levate le prime proteste e i veri risultati si vedranno fra due anni, se si mostrerà determinato e coeso abbastanza da cambiare davvero il peso dello stato e la maniera in cui funziona”. Sempre da Cambridge, il politologo John Dunn concorda sull’idea che sia “difficile giudicare già a questo punto il grado di radicalità del governo Cameron, che non ha annunciato un programma di riforme nella stessa maniera enfatica (e onesta) della Thatcher, ma s’è limitato a promettere o minacciare politiche piuttosto contraddittorie. Essere a capo di una coalizione limiterà ulteriormente le sue possibilità, né si sa fino a che punto. Ciò nondimeno è giusto dire che iniziative come la finanziaria di George Osborne sono da considerarsi audaci; qualora però dovesse verificarsi una ricaduta della crisi, col senno di poi tali iniziative appariranno molto meno brillanti”. L’ultima parola spetta a Tim Bale, specialista della storia recente dei tory. “Anzitutto Cameron”, dice al Foglio, “ha tutte le prerogative per diventare un grande primo ministro: sa in che direzione puntare ma è pronto a essere pragmatico quando è necessario, è un comunicatore talentuoso e, a differenza di Blair, è bravo a tenere d’occhio sia i dettagli sia il quadro generale. Al momento sembra traballare solo sulla politica estera, per la quale non ha mai mostrato particolare interesse; per il resto i suoi primi cento giorni sono stati piuttosto radicali perché choc-e-terrore è la sua cifra stilistica. Sta ripetendo ciò che fece appena divenne leader del partito nel 2005: il suo scopo è, oggi come allora, mostrare subito che lui è qui per fare la differenza. Il suo obiettivo a lungo termine è dividere e neutralizzare i Lib-Dem come hanno già fatto i suoi predecessori di inizio Novecento; la cura radicale a cui sta sottoponendo la nazione mira a una netta vittoria solitaria alle prossime elezioni, sapendo che sarà giudicato in base ai fatti e non agli articoli sui giornali”.

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