Padre Bertogli, in Turchia da 25 anni, ha ricostruito la chiesa della città dentro il quartiere sunnita. “I rapporti sono buoni”
Chiesa alla turca
I cristiani di Antakya, una città di confine tra la Turchia e la Siria, preparano la Pasqua in una chiesa nel quartiere sunnita. E’ una casa bassa di pietre scoperte, nel cortile ci sono alberi di arancio e le strade intorno odorano di carne arrosto e di kunefe, un dolce caldo di miele e di formaggio. Il custode di questa comunità si chiama padre Domenico Bertogli, è cresciuto sull’Appennino modenese ma vive in Turchia da venticinque anni. In un certo senso, è lui che ha ricostruito la chiesa di Antiochia. Lo ha fatto fisicamente, con il lavoro delle braccia e della testa, e continua a farlo ogni giorno.
Un video per i turisti trasmesso nella metropolitana di Istanbul dice che il paese è un mosaico di civiltà e ogni fede è un tassello che merita spazio: c’è un imam che apre le porte di una moschea, un frate al cancello di Sant’Antonio, una delle chiese cattoliche più importanti della città, e un padre ortodosso che benedice nel suo monastero. I fatti degli ultimi anni raccontano una realtà diversa, complicata e contraddittoria. In Turchia, l’amministrazione pubblica esercita un controllo piuttosto severo sulle autorità religiose attraverso una serie di organismi burocratici e di fondazioni. E’ un controllo che riguarda soprattutto i conti e i bilanci delle diverse chiese. All’ingresso di ogni tempio costruito sul territorio turco sventola una bandiera rossa con la mezzaluna. C’è nelle grandi moschee di Istanbul, di Adana e di Trabzon, nei monasteri ortodossi, nelle parrocchie greche e persino in quelle armene. Soltanto le chiese cattoliche ne sono prive: il Vaticano rifiuta le attenzioni del governo di Ankara, e quello nicchia sul riconoscimento. Negli ultimi mesi, anche l’Unione europea ha chiesto alla Turchia di rivedere la propria posizione sul tema della libertà di culto. Nonostante gli sforzi e le operazioni di marketing, questo paese è considerato una terra ostile, almeno in parte, per i cristiani. Nel 2007, tre dipendenti della casa editrice Zirve, che pubblica la Bibbia e altri testi religiosi, sono stati uccisi da un gruppo di fanatici. La polizia li ha trovati riversi a terra, con una corda intorno ai piedi e alle mani e la gola tagliata. E’ accaduto a Malatya, la città di Ali Agca, un centro nella parte orientale del paese in cui l’estremismo islamico si sovrappone in fretta al nazionalismo. Sempre nel 2007, a Izmir, un prete italiano è stato ferito allo stomaco con una coltellata. Un anno prima, un ragazzo di sedici anni ha sparato un colpo di pistola contro padre Andrea Santoro, il sacerdote di Trabzon, l’antica Trebisonda sulle coste del Mar Nero. Santoro è morto poco dopo. Erano i giorni delle proteste scoppiate in tutto il mondo islamico contro le vignette sul profeta Maometto. Per molti cristiani di Antakya, quello è stato il momento più drammatico degli ultimi anni. “A volte ho l’impressione che il governo ci tratti come animali in via di estinzione – spiega padre Bertogli – Cercano di proteggerci e lo fanno in maniera così evidente da risultare un po’ goffa. Dopo l’omicidio di padre Santoro, le autorità locali ci hanno mandato la scorta: abbiamo avuto una macchina della polizia all’ingresso della nostra chiesa tutte le sere, per un mese. Poi più nulla. Il problema è che non esiste una sola Turchia, ce ne sono centinaia, tutte diverse, spesso vivono insieme all’interno della stessa città. Per i cristiani non è sempre facile comprendere e affrontare questa realtà”. L’ultimo attacco alla chiesa è avvenuto a Istanbul, lo scorso settembre, quando alcuni vandali hanno distrutto novanta lapidi nel cimitero di Valukli, accanto al famoso monastero ortodosso. E’ un segno pericoloso: qualcosa di molto simile, nel ’55, scatenò il più grande pogrom contro i simboli del cristianesimo. I problemi sono ancora più evidenti in Anatolia. Nella città di Adana, la sede della moschea più grande di tutto il paese, il “mosaico di civiltà” è garantito dalla chiesetta di Santo Stefano, che apre un paio d’ore al giorno per due giorni alla settimana e quando è chiusa sembra un’ambasciata, con portoni di ferro e telecamere a sorvegliare l’ingresso. Qualche settimana fa, nel momento di massima tensione tra il governo di Ankara e quello di Gerusalemme, alcuni sconosciuti hanno lasciato un pacco e un biglietto di minacce contro Israele di fronte alla chiesa di padre Domenico. “Sono arrivati gli artificieri e lo hanno fatto esplodere. Dentro c’erano soltanto sassi. Probabilmente hanno fatto confusione: il messaggio non era per noi, ma per la sinagoga, che si trova qui vicino”.
Prima di chiamarsi Antakya, questa era Antiochia, una delle capitali del mondo antico. Su un’isola al centro del fiume Oronte, che taglia ancora in due la città, i re seleucidi costruirono il loro palazzo. Dell’isola non resta che la leggenda: se ne possono vedere alcune tracce seguendo un canale secco che segue il vecchio corso dell’Oronte. Questo centro era strategico per la guerra e per l’economia. Per la città passavano le rotte dei mercanti diretti verso il Mediterraneo dalla Mesopotamia e i plotoni di miliziani che dovevano raggiungere la Siria dall’Anatolia. Poco distante, nelle foreste di Dafne, si tenevano cerimonie religiose, giochi sportivi e rappresentazioni teatrali. Oggi è un grande parco in cui si vendono fragole e pannocchie, soltanto il fusto di una colonna segna il punto in cui sorgeva il tempio dell’oracolo. Durante il periodo di Antioco IV, 170 anni prima di Cristo, i selucidi vollero un rilievo colossale di Caronte lungo un fianco del monte Stauris: pare che fosse un gesto sacro per fermare una pestilenza. Il volto della divinità è ancora lì e attira bambini e ragazzi che preferiscono una giornata di giochi nei boschi alla noia della scuola. Dalla cima al monte, si vede la gola del torrente Parmenium, che ora è asciutto, ma era una delle vie più usate per entrare in città. Giustiniano vi fece costruire un ponte gigantesco, la porta di ferro, che permetteva ai mercanti di superare il torrente con le loro carovane. Non è facile trovare il sentiero per raggiungerlo, ma sulla strada si trovano pastori in grado di indicare la via. Sono loro gli ultimi custodi di queste rovine maestose. Gli altri resti, quelli della civiltà romana, sono sepolti sotto undici metri di terra. Secondo una ricerca realizzata negli anni Trenta dall’Università di Princeton, la strada principale di Antakya è costruita sull’antica via colonnata eretta al tempo di Erode il Grande quando era stratega della Celesiria. Anche per i cristiani è una terra piena di memorie. In una grotta a tre chilometri dalla città c’è la grotta di san Pietro, che ha ospitato Paolo di Tarso e gli altri discepoli. Proprio qui, per la prima volta, i seguaci del Nazareno furono chiamati “cristiani”. Da qui partirono i loro viaggi alla volta di Roma, e qui cominciarono a predicare fra i greci che adoravano Zeus e Apollo. In qualche modo, gli uomini hanno cominciato a costruire la chiesa proprio fra queste montagne. “La nostra comunità è piccola, ma è fondamentale che rimanga viva – racconta padre Bertogli – Antiochia è un luogo decisivo per la storia di noi cristiani, non sarebbe la stessa cosa se non ci fossimo più. Tutte le volte che un pellegrino viene da queste parti, cerco di spiegare che la cosa importante non è avere ricostruito la chiesa. E’ averlo fatto qui, in una terra che significa moltissimo per noi. Fa un grande effetto pensare che siamo nel luogo esatto in cui i primi discepoli si riunivano. Ma sai come si dice, vero? Le pietre si vedono e si toccano, la storia no”. E’ così che, nel quartiere sunnita di Antakya, al confine tra la Turchia e la Siria, settanta cristiani tengono viva la storia di una civiltà.