Battaglie su internet
Lo sceicco Said Amer, presidente del comitato per le fatwe dell’Università di Al-Azhar del Cairo, ha smentito la “scomunica” di Facebook che era stata annunciata da un quotidiano arabo londinese proprio in concomitanza con il sesto anniversario della popolare rete sociale, partita il 4 febbraio del 2004.
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Ma questo è un momento di particolare effervescenza in tutto il mondo, a proposito della minaccia che la Rete pone ai governi autoritari. Anche ai governi democratici, certo: le minacce lanciate da internauti anonimi o l’aggiramento dei diritti di proprietà intellettuale atttraverso il peer-to-peer sono grattacapi anche per i nostri legislatori. Al massimo, però, in democrazia potrà accadere che qualche elettore dia il suo suffragio a qualche forza come quel Partito Pirata che sta spopolando in Svezia.
Facebook, invece, è stato effettivamente bloccato in Iran, dove i 7,5 milioni di internauti rappresentano la seconda percentuale di popolazione on line dopo Israele, e dove dunque gli strumenti della Rete sono stati sempre più usati per aggirare la censura sulla stampa, mentre blog e Twitter sono diventati un importante strumento di mobilitazione dell’opposizione. Ma da quando Ahmadinejad è andato al potere sono stati introdotti filtri sempre più rigorosi. L’accesso a Bbc e New York Times è stato così bloccato, e Facebook è pure finita nel mirino, assieme a Youtube e a Wikipedia. È stata inoltre introdotta una legge che richiede un’autorizzazione ufficiale per lanciare un sito Internet, ed è stata limitata la diffusione delle connessioni olte i 128 kb/s. L’importanza che Ahmadinejad dà alla battaglia su Internet è dimostrata dal particolare che anche lui dispone di un blog.
Minacce di un blocco a Facebook sono circolate anche in Vietnam, dove ci sono 22 milioni di internauti e un milione di utenti della stessa Facebook. In Siria Facebook è bloccato, sbloccato e ribloccato in continuazione, “per esigenze di sicurezza”. E anche la Cina blocca abitualmente Youtube, Facebook, Twitter e Wikipedia ogni volta che arriva all’attenzione qulche tema spinoso. Ma la Cina soprattutto ha sviluppato tecnologie di filtraggio che per un po’ sono state accettate dalle imprese straniere operanti nel Paese. Quando però ci si sono aggiunte incursioni di hacker contro gli account Gmail di attivisti per i diritti umani Google ha perso la pazienza, e il 12 gennaio ha annunciato che avrebbe offerto in Cina un servizio senza più filtri, e gli utenti cinesi hanno potuto così vedere immagini come quelle del Dalai Lama, della strage della Tienanmen o delle esecuzioni capitali. E a questo punto è nato in Cina “Goojee”: un sito clone di Google. D’altra parte, già da tempo il governo cinese aveva cercato di bloccare la diffusione di Google attraverso il motore di ricerca nazionale Baidu.
Filtri su Internet esistono anche a Cuba, dove peraltro solo lo scorso settembre il Ministero dell’Informatica ha autorizzato le Poste a installare cibercafè nelle sue succursali. Fino a quel momento a Internet si poteva accedere solo dagli uffici pubblici per ragioni di lavoro, e qualche mese prima era stato anche vietato l’accesso dei cittadini cubani ai posti Internet degli hotel e centri di comunicazione per stranieri. Anche questa proibizione è stata revocata, ma i 7-12 dollari ogni ora di navigazione che costa una tessera prepagata equivalgono a da un terzo ai due terzi di uno stipendio mensile. A dicembre è stato arrestato per spionaggio Alan Gross: un esperto statunitense in cooperazione allo sviluppo e in informatica, che dopo aver lavorato alla campagna elettoraloe di Barack Obama era stato mandato a aiutare la comunità ebraica cubana a aggirare i filtri su Wikipedia. E all’inizio dell’anno tre agenti dei Servizi hanno pestatoYoani Sánchez: la blogger ormai diventata celebre granzie a un sito tradotto anche in italiano.
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