Conformisti e saccenti
Il conformismo degli intellettuali su cui si concentra Battista è politico. Quanto all’estinzione degli intellettuali in Italia, l’espressione mi sembra ambivalente. Siamo, cioè, fra la constatazione desolata e l’augurio: come dire che se i nostri intellettuali sono così come sono e sono quelli che abbiamo intorno, sarebbe meglio che non ci fossero.
Il titolo del libro è: “I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia” (Rizzoli, 222 pagine, 18 euro). Il conformismo degli intellettuali su cui si concentra Battista è politico. Quanto all’estinzione degli intellettuali in Italia, l’espressione mi sembra ambivalente. Siamo, cioè, fra la constatazione desolata e l’augurio: come dire che se i nostri intellettuali sono così come sono e sono quelli che abbiamo intorno, sarebbe meglio che non ci fossero: anzi ci sarebbe da augurarsi che si estinguessero del tutto, dal momento che falsificano le idee, rumoreggiano inutilmente e in sostanza fanno danno.
Per manifestare con maggiore efficacia e oggettività la propria complessa antipatia per gli intellettuali venerati, vigenti, supponenti e senza dubbi su se stessi, Battista ha scelto di concentrarsi sul loro conformismo politico, sulla loro ottusità politica, sulla loro malafede, disonestà e viltà morale in campo politico. Agli esempi che fa (e sono molti, tutti da leggere) non ho da obiettare niente: si tratta di episodi e aneddoti penosi, desolanti, soprattutto perché mostrano la categoria intellettuale come una specie di “branco” che si accanisce contro i pochi che osano contraddire o “tradire” le convinzioni politiche che di volta in volta sembrano obbligatorie. L’effetto generale del dossier messo insieme da Battista è tristissimo. Sapevamo molte cose, quasi tutte. Ma sebbene Battista sia tornato ripetutamente in questi anni sul rapporto fra intellettuali e politica, quello che ci offre è un promemoria la cui attualità non invecchierà facilmente.
Battista loda gli “irregolari”, coloro che non sono stati troppo solerti nel cercarsi a tutti i costi appartenenze politiche. Oggi la sinistra antiberlusconiana (quella che spiega tutto con la malefica persona di Berlusconi, trascurando i motivi sociali del suo successo politico) continua a dare spettacolo con la sua mania di schierarsi e di vedere schierati tutti su ogni questione non solo politica, ma estetica, morale, religiosa, scientifica. Intorno al nome di Berlusconi sono stati fatti svolazzare di continuo i nomi di Mussolini e di Hitler. Si è ripetuto che il suo governo equivale al fascismo storico, anzi è peggio. Si è arrivati a dire, per furore oppositivo, che l’opposizione non esiste più e si è proclamato nelle piazze, in tv e sui giornali che non c’è più libertà di opinione. Ora, è vero, Berlusconi non è l’uomo politico dei miei sogni. Ma credo di intuire perché gli italiani sono riusciti a preferire lui alla sinistra: fra una cosa evidente e reale e una cosa irreale e fumosa, l’elettore tende a scegliere ciò che capisce meglio. Avere un nemico esterno come Berlusconi è stata per la sinistra una doppia sciagura, perché le ha anche impedito di fare apertamente i conti con se stessa, con la propria storia, con le ragioni del proprio declino, della propria sordità ai problemi della “gente comune”. Non è una buona idea credere che il centrodestra si possa combattere mobilitando i professori universitari e gli artisti. Sarebbe meglio capire quali mutazioni ha prodotto nella nostra società la modernizzazione culturale (mode, mentalità, nuovi media) e le grandi migrazioni.
Parlo di questo perché il libro di Battista guarda al passato tenendo d’occhio il presente. Il mosaico di vicende che ha messo insieme, se non è una vera e propria storia, è certo un eloquente campionario di come la politica, così idolatrata dalla sinistra, possa essere un vero “oppio degli intellettuali”. La tesi di Battista è che in politica, per capire le cose, è meglio essere semplici che complessi, è meglio essere pensatori onesti che pensatori profondi e sofisticati. Di fronte al nazismo e allo stalinismo, filosofi del calibro di Martin Heidegger e György Lukács non hanno mostrato particolare chiaroveggenza, accecati, più che illuminati, dalle loro filosofie. Autori isolati come Orwell, Simone Weil, Bernanos e Camus rifiutarono invece le dittature sia di destra che di sinistra, non per equidistanza farisaica, ma perché videro le catastrofi annunciate da due tipi opposti e complementari di regimi criminali.
La furia di Battista a volte si scatena in formule totalizzanti e piuttosto apocalittiche, che sembrano scaricare sugli intellettuali tutti i vizi, le ottusità, le acquiescenze del genere umano. Mi limito a citare le righe in cui stigmatizza “la peculiare fatuità degli intellettuali, perennemente ammaliati dalle dittature. Votati a mille cause sbagliate. Culturalmente schiavi di ogni seduzione totalitaria. Impermeabili a ogni principio di realtà”. Noto a questo punto che Battista dimentica almeno due cose: 1) che la cultura, le arti, le filosofie del Novecento sono state affette da malattie molto simili a quelle politiche (anzitutto l’estremismo e l’eccesso estremistico di coerenza), e 2) che quando dei regimi liberal-democratici non mantengono le loro promesse, sparano su operai e contadini, li riducono alla fame e li costringono all’emigrazione (nel corso del Novecento questo è accaduto), allora le reazioni possono essere violente, nonché sconsiderate. Silone, Simone Weil, Koestler, Orwell, Camus, prima di diventare degli “ex” sono stati socialisti, anarchici e comunisti, non per caso, non senza ragioni (a volte tuttora valide): sono stati antiborghesi e anticapitalisti prima di essere antifascisti, anticomunisti e antimarxisti.
Come pamphlet politico il libro di Battista è un prezioso promemoria. Come saggio sugli intellettuali paradossalmente pecca di politicismo. Sulla qualità culturale degli intellettuali chiamati in causa si poteva dire di più, e un giornalista colto come Battista poteva farlo. Le acute osservazioni singole non mancano e i giudizi negativi sono spesso impliciti. Ma per fare solo alcuni esempi, aggiungerei che il maggiore difetto di Heidegger è filosofico, non politico: nel suo linguaggio parlare di nazismo è letteralmente impossibile. Il perbenismo etico-politico di Calvino, che definì Orwell un pamphlettista di quart’ordine, è stato un perbenismo anche culturale e letterario: la sua narrativa ha sempre cercato di non disturbare ma di blandire il lettore, evitandogli ogni dispiacere. L’autobiografia di Rossana Rossanda non è solo politicamente, ma soprattutto letterariamente, psicologicamente debole e confusa.
Insomma il rischio del libro è che si giudichino gli intellettuali solo per le loro scelte politiche sbagliate, trascurando che a volte i loro libri sono perfino peggio.