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Dopo il Rush finale

Stefano Pistolini

Magari non si condivideva una sola delle asserzioni che ti rovesciava addosso con parlantina fluente, alti e bassi, coi suoi simulati attacchi d’ira, ma Limbaugh andava ascoltato

Primo: Rush Limbaugh è bravissimo. Magari non si condivide una sola delle asserzioni che ti rovescia addosso con parlantina fluente, alti e bassi, coi suoi simulati attacchi d’ira, col vagabondare filosofico-propagandistico-situazionista del suo monologo davanti al microfono da conduttore radio (cinque giorni alla settimana, tre ore al giorno, inizio messa in onda 12.06 eastern time, bacino d’ascolto: 20 milioni di persone, 600 radio che ribattono il suo show in ogni stato), si rabbrividisce quando cala l’ascia del provocatore, a tratti sublime a tratti volgare, eppure non si smette di sentirlo, ipnotizzati, frementi, schiumanti. Lo si ascolta.

   

Rush Limbaugh III, origini middle class, studi abortiti per la fissazione di diventare dj, per quindici anni ostinatamente ai margini del mestiere, un mezzo fallito che perdeva un posto dopo l’altro. Poi, un quarto di secolo fa, il decollo, fino alle altissime sfere dove adesso si aggira col suo aereo personale, un Gulfstream da 54 milioni di dollari, dove rinnova contratti da 38 milioni di dollari l’anno con lubrificante d’entrata da 100 milioni. Un imperatore della comunicazione salito così in alto perché ha trovato la chiave del suo cuore, dov’erano conservati i segreti del mestiere che sapeva di voler fare ma non sapeva ancora come. Rush, da brutto anatroccolo radiofonico, diventa l’inventore di un genere che va oltre la radio, sfocia nella psicologia popolare: la possibilità di un dialogo virtuale e collettivo nell’epoca dell’individualismo forzato.

   

Limbaugh diventa il primo fautore su larga scala, della talk radio: un microfono, un disco ogni tanto, un docile partner a farti da spalla – il giullare di Limbaugh si chiama Snerdly autodefinitosi “afroamericano-in-ottime-condizioni-e-nero-garantito-al-punto-da-poter-criticare-Obamino” –, un telefono per dar spazio a qualche ascoltatore, che lo loda e pone domande cui Rush risponde se ha voglia, altrimenti torna al soliloquio. Nient’altro. Questo per 180 minuti, in cui Limbaugh rappresenta se stesso, e con sé i milioni di sosia e ombre, amiche e nemiche, che non sanno sottrarsi al timbro avvolgente e minaccioso della sua voce. Limbaugh è il campione del conservatorismo in declinazione radiofonica, che non riconosce regole o canoni. Sporco, eccessivo, insidioso, del tutto non politicamente corretto. E che potrebbe davvero essere chiamato neoconservatorismo, non nel senso dottrinale, bensì come forma espansa d’un modo di vivere l’America, di assaporarne le potenzialità ma anche le insoddisfazioni, le scontentezze, le delusioni, soprattutto tra coloro che si sentono diretti eredi dei residenti originali, incarnazione – proprio loro che masticano amaro e ingollano Peptobismol, trascinando berlina e preoccupazioni per l’autostrada – di ciò che resta dell’eccezionalità americana idolatrata da Limbaugh, ma bistrattata, asservita a un governo che non vede l’ora di somigliare alle macchine fiscali della vecchia Europa. Rush non ci sta. E’ un tipo pericoloso, perché usa la lingua, spara epiteti come cannonate, ti attira giù per le spire di elucubrazioni fino a impacchettarti balbettante ad ammettere ciò che non avresti mai ammesso, a contemplare l’aberrante.

  

Rush sorge nell’etere americano dentro al trionfo reaganiano, e di quell’effimero momento di riallineamento dei destini nazionali sposa il sogno e oggi ne rievoca la leggenda ardente. Lui nel frattempo è diventato una stella, dissacra l’America, libera lo sconquasso verbale, rovescia il disprezzo da figlio del Missouri sulla masnada di convenzioni che infarcisce il paese: Rush dà apertamente di “fregatura” al riscaldamento globale, si dichiara paladino della corporate America, giudica Bush un volenteroso dilettante incapace di rivaleggiare col magnifico Ronnie, irride la solidarietà pro Aids, ruggisce se sente parlare di capire le ragioni dell’altro, soprattutto se parla arabo. Limbaugh trasforma i suoi ascoltatori in pentole a pressione, finché la magia del suo soliloquio va in risonanza con le scintille della loro rabbia, ed eccoli che tirano pestoni sul volante, cacciano grugniti liberatori, e invocano El Rushbo, come si ribattezza quando scherza.

 

Limbaugh è un suono essenziale dell’ultima America, quella che ha dato segni di scontento sul finale di Clinton, che ha mandato Bush alla Casa Bianca e ha riempito Washington di repubblicani, provando a usare la politica come strumento per ottimizzare i redditi di famiglia e la qualità della vita dei figli.

 

Un’illusione. Le tasse sono il diavolo, i governativi sono i suoi emissari, i politici sono approfittatori in mezzo a cui sono mescolati solo pochi santi. L’americano è splendido e inimitabile e Rush – che a 50 anni diventa sordo, ma che si fa impiantare una diavoleria digitale nell’orecchio per sentire qualcosa, impara a leggere le labbra e più in generale se ne frega, perché tanto lui è uno che parla, non uno che ascolta – massimalizza la sua rendita diventandone il confessore, lo psicanalista, soprattutto il pastore non dell’anima, ma dello stomaco. Altri grandi monologatori come Howard Stern o Don Imus hanno fatto dell’America una nazione che adora i suoi sacerdoti radiofonici.

 

Eppure, adesso che Rush non ha niente più da dimostrare, e niente più da comprare – vive da solo col gatto in un complesso residenziale tutto suo a Palm Spring, Florida, trasmette da un bunker, s’è appena ripulito dalla dipendenza da psicofarmaci, colleziona automobili che non guida e mogli che l’annoiano – adesso che alla campagna 2008 ha partecipato svogliatamente, perché McCain non gli piace con tutto quel flirtare coi progressisti e Obama lo rende isterico, col fatto che qualsiasi critica gli rivolgi sei subito un razzista, adesso che sembra pronto a scatenarsi contro un’eventuale presidenza democratica, adesso Limbaugh potrebbe fare i conti col segno dei tempi. Nancy Pelosi, l’agent provocateur della rivoluzione obamiana, arma impropria di un progressismo di sistema su cui l’America non ha riflettuto abbastanza, fa sapere d’essere intenzionata, allorché i tempi saranno propizi, ad aprire la questione par condicio nella radiofonia. Una vendetta meditata: mettere la museruola a Limbaugh e soci, colpevoli di smargiassare coi loro assoli sui vizietti dei personaggi pubblici. Propone una radio anestetizzata, educata, con pari opportunità e noia generalizzata. A Rush la prospettiva non spaventa granché: se vuole può comprarsi una tv, una squadra di football, un impero Internet. Oppure, disgustato, può decidere di tacere e giocare a golf. Malinconico e brutale, come è. Un rognoso bianco americano, piantagrane e dalla bocca larga. Salvo cadere in silenzi profondi come il Grand Canyon, dal momento che il paese attorno non è più quello che volle antipaticamente difendere.

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