PUBBLICITÁ

“Rovina il fisico e il morale” Il difficile rapporto tra sinistra e sport Prima che il fascismo ne facesse anche strumento di consenso era visto come un tranello dei padroni e una caricatura dello sfruttamento capitalista

Prima che il fascismo ne facesse anche strumento di consenso era visto come un tranello dei padroni e una caricatura dello sfruttamento capitalista

PUBBLICITÁ

Quei compagni non hanno capito che “l’elevazione morale e fisica del popolo” è o deve essere una priorità: “Credete voi che sia meglio abbrutire la propria domenica nelle osterie, nelle case di tolleranza, nei circoli di giuoco o correre all’aria aperta e lottare e godere della gioia dello sforzo e dell’attività fisica e della tensione morale della vittoria? Credete così? Allora non siete dei socialisti”.

Ma la mentalità prevalente, all’epoca, è opposta. Gli stessi dirigenti trattano l’ambiente sportivo con sufficienza, se non con disprezzo, e vedono nelle competizioni la caricatura del conflitto base dello sfruttamento capitalistico. Nel 1910 sull’Avanti!, l’organo del partito, una figura del rango di Angela Balabanoff sostiene perfino che “il sentimento di solidarietà, non solo di classe, ma umano in generale” nello sport “viene colpito nel modo più bestiale”. Gli stessi giovani socialisti, in teoria più propensi a cogliere lo spirito nuovo dei tempi, mettono in guardia i lavoratori da pratiche che possono “rovinare il fisico ed il morale” e criticano le strutture di base che, qui e là, organizzano trofei malgrado la posizione di chiusura condivisa da quasi tutti i leader, il riformista Turati incluso, per il quale l’agonismo sarebbe un trastullo “stupido e aristocratico”.

L’associazione internazionale dei circoli sportivi socialisti (sorta solo nel 1913) e quella analoga di matrice cattolica (nel 1911), del resto, sono guardate entrambe con sospetto dagli appassionati che hanno posto le basi del movimento senza cercare e senza ricevere benedizioni di autorità civili o spirituali e fronteggiando diversi tipi di circospezione e sfiducia. Nel 1909 la Gazzetta dello Sport attacca esplicitamente i primi sodalizi sportivi clericali e socialisti: gli uni, perché “ricchi di forze morali e finanziarie attirano i giovani allo sport per condurli poi alle funzioni catechistiche”, gli altri perché mirano “all’educazione laica”. Così lo sport, “preso in mezzo a questo fuoco di fila”, invece di “essere assolutamente libero” e potersi sviluppare “per il solo fine della educazione fisica, del perfezionamento della nostra potenza muscolare”, è usato da chi prepara “squadre e legioni” per imbastire processioni o cortei imbandierati. Contro tali “germi corruttori” e “dall’assalto di questi nemici”, lo sport “deve ribellarsi” per restare autonomo e indipendente.

PUBBLICITÁ

Diffidati dai pionieri, i militanti dei club rossi e bianchi si danno battaglia aperta per ritagliarsi uno spazio. Un paio di esempi. Nel 1903 la federazione ginnastica, ceppo fondatore dello sport italiano, nega l’iscrizione a due società di ispirazione clericale (Fortitudo Bologna e Voluntas Milano) perché incompatibili con il rifiuto di indirizzi politici e religiosi fissato per statuto. Dieci anni dopo si arriva perfino a menare le mani. Un raduno di atleti cattolici europei, tra cui c’è un drappello di austriaci, complice la tensione aperta sulle terre di confine, causa violenze per le strade di Roma tra papalini e nazionalisti: sassaiole, scene di boxe, cariche dei gendarmi. È il 7 settembre 1913: nelle basiliche di San Pietro e San Giovanni sono attesi migliaia giovani provenienti da Austria, Germania, Belgio, Francia e Nord Italia. Un corteo inneggiante al Papa-Re arriva al Laterano, dove monsignor Pietro Lafontaine tuona: “Non basta essere forti come sono forti i cavalli, i muli, i leoni. Occorre avere anima cristiana”. Il successivo tentativo di sfilare fino al Vaticano vede gazzarre a piazza Vittorio, via dei Serpenti, via Cavour, via Nazionale, piazza del Gesù (davanti all’ambasciata viennese presso la Santa Sede) e piazza San Pantaleo sotto la statua di Minghetti, leader della destra risorgimentale (che in verità con il pontefice era sceso a patti). Dietro a San Pietro, nelle piazzette Scossacavalli e Rusticucci poi distrutte dal piccone mussoliniano e alla Porta Angelica, cattolici e anticlericali se le danno brandendo le rispettive insegne. I questurini, finiti in mezzo, hanno la peggio. Per ristabilire l’ordine sono necessari i fanti dell’81° e dell’82° reggimento e gli squadroni di cavalleria.

PUBBLICITÁ

La sinistra solo gradualmente metterà da parte gli ostracismi. Giacinto Menotti Serrati, pur critico per il segno borghese che ha l’alba dello sport, lo approva se esprime tensione “internazionalista”. Nell’estate 1922 L’Ordine Nuovo sposa “l’aspirazione di opporre al monopolio capitalistico dello sport un movimento proletario”, purché sia “sano e rigoroso, libero da tutte le pastoie addormentatrici, propulsore e vivificatore invece di tutte le energie fisiche, morali e intellettuali della classe operaia per la loro utilizzazione ai fini della lotta emancipatrice”. La frazione comunista torinese, quindi, ha una posizione ancora tutta ideologica. Si ipotizza l’avvento di uno sport di classe per smascherare il “tranello” padronale, lamentando che i pochissimi club nati nelle fabbriche “sono stati creati dalla generosità velenosa degli industriali”. Fanno i mecenati, forniscono campi da gioco e attrezzature e proclamano “l’apoliticità dello sport” per “stornare” così “l’attenzione degli operai dai problemi ben più gravi ed impellenti della lotta di classe”. Sempre nel 1922 la rivista di Gramsci propone di creare una federazione nazionale che coordini la serie di iniziative sbocciate nelle periferie e nelle campagne. L’auspicio, finalmente, è che lo sport sottragga i giovani “all’abbrutimento dell’osteria e della sala da ballo, locali chiusi e generalmente privi di buona aria salubre” e faccia “temprare il corpo”. Ma lo scopo prevalente, con un torneo di football o una corsa in bicicletta, resta rinsaldare i “vincoli di fratellanza fra gli operai”. È lontana l’idea che lo sport sia un vantaggio, un diritto del singolo.

In quelle stesse settimane si ricuce la scissione esplosa in Federcalcio sulla riforma del campionato presentata da Vittorio Pozzo (il futuro artefice dei trionfi azzurri nella Coppa Rimet 1934 e 1938 e alle Olimpiadi 1936). L’Ordine Nuovo boccia la “pacificazione” siglata tra i due schieramenti rivali. Perché “quando si trattò di nominare le cariche sociali, le acque incominciarono a intorbidarsi, le ambizioni a destarsi, gli appetiti del cadreghino a palesarsi”, i caporioni andarono alla Camera del Lavoro di Torino a reclutare un buon numero di disoccupati: dietro compenso, gli operai si finsero delegati all’assemblea della Figc e votarono, ora per l’uno, ora per l’altro fronte. Altro che elevare i lavoratori “moralmente e fisicamente”! Lo sport rimane un’insidia, un’attività di cui diffidare. Ci penserà il fascismo a farne uno straordinario strumento di consenso del regime.

Marco Sappino

PUBBLICITÁ