Sul pullman con i compagni, il destino da mujaheddin. Ecco il bambino che uccide le spie russe

Paola Peduzzi

Capelli fino alle spalle, pantaloni militari, l’orologio a destra, come lo porta il califfo, Abu Bakr al Baghdadi, da jihadista vero – “distinguetevi dai nazareni” –, pistola in mano, silenzio e ubbidienza. Il ragazzino kazaco dell’ultimo video pubblicato dallo Stato islamico, quello che spara a due spie kazache mandate dal governo russo per raccogliere informazioni su alcuni leader dello Stato islamico (così dicono nella loro straziante e costruita confessione che precede l’esecuzione, minuti lunghissimi di scuse e di pentimento inutili, lo sanno anche loro che non ci sarà pietà) è un jihadista in miniatura, si muove con l’orgoglio di chi è convinto di essere dalla parte del giusto – gli hanno insegnato così – e i montatori del filmato, che sono dei professionisti, inseriscono gli effetti giusti, rallentando il movimento dei capelli, inquadrando il sorriso di un bambino al quale adesso qualcuno dirà bravo – e i bambini che sanno di aver fatto bene hanno un sorriso inconfondibile – e sfumando il mondo intorno per restituire un senso di luce e di eroismo.

 

Boko Haram, in Nigeria, avvolge ragazzine di dieci anni di esplosivo e le manda a farsi esplodere nelle folle, e c’è il dubbio che tra queste ci siano le ragazze rapite che non sono mai state trovate; lo Stato islamico usa i bambini come assassini, un piccolo kazaco “che sa che tornerà ad Allah” che uccide due kazachi adulti, musulmani perduti, che dicono prima di morire: non fate come noi, noi siamo diventati apostati, restate sulla via di Allah – è questa la nuova frontiera dei califfi e degli aspiranti tali. I bambini sono da sempre utilizzati nelle guerre, e se chiedi ai terroristi perché mandare un bambino a farsi esplodere, non c’è un che di vigliacco?, loro rispondono che i bambini sono contenti di ubbidire, capiscono quel che è giusto, improvvisamente adulti, alla bisogna.

 

Il bambino kazako che esegue la condanna a morte delle spie russe era già comparso in un altro video, dal titolo “Race towards Good”, sempre dello Stato islamico, che raccontava la formazione della comunità kazaca all’interno del gruppo. La prima volta che compariva, il bambino, era assieme ad altri suoi coetanei, su un pullman, come in una gita, i più monelli dietro, che ridono, mimano di impugnare un fucile, si alzano, ripetono comandi militari. Poi scendono tutti, correndo, e vanno a sedersi a banchi tutti verdi, inizia la lezione, si impara il “good”, il bene, quello cui si deve aspirare nella vita (e si studia l’arabo, per leggere il Corano, “così aiutiamo i fratelli non arabi”, dice un maestro). E’ la nuova generazione di mujaheddin, si concentra quando deve caricare il kalashnikov con le munizioni, si sforza quando fa le flessioni, fa la faccia cattiva quando si fa la lotta, ride quando vede il più piccolo del campo che si mette in bocca il fucile giocattolo.

 

Il bambino killer che ammazzerà le spie russe viene intervistato. Come ti chiami? Abdullah. Da dove vieni? Dal Kazakistan. Dove ti trovi adesso? Nel Califfato islamico. Che cosa stai facendo? In questo momento sono in un campo d’addestramento. Chi è il tuo capo? Abu Bakr al Baghdadi. Chi vuoi essere in futuro, inshallah? Sarò uno che vi ammazza tutti, voi infedeli. Sarò un mujaheddin, inshallah.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi