Una fogliata di libri

Elsa Morante e il suo bisogno radicale di stregare la realtà

Giulia Ciarapica

A sessant’anni dalla pubblicazione vale la pena rileggere “Lo scialle andaluso”. Fiabeggiare per sottolineare la drammaticità del reale

"La casa era arredata con una mobilia volgare e senza faccia (…) ed Elena si aggirava per quelle stanze come in fondo ad un pozzo”. C’è un racconto di Elsa Morante dal titolo “La nonna” che pur senza ricorrere a elementi sovrannaturali o esplicitamente fantastici riesce a metterci di fronte a una “casa senza faccia”, stanze che diventano pozzi, protagoniste come Elena che “rimasta vedova a quarant’anni, si accorse di essere viva soltanto a mezzo e di trovarsi in un vuoto spietato e senza rimedio”. Quelle di Morante non sono mai solo descrizioni, mai solo metafore, quello che lei costruisce è uno spazio utile ai suoi lettori futuri, pertugio in cui infilarsi per osservare l’orizzonte putrefatto, moribondo e reale del mondo contemporaneo.

 

A sessant’anni dalla sua pubblicazione, i racconti de “Lo scialle andaluso” (in cui è contenuto il sopracitato “La nonna”, così come i testi simil-gotici  “L’uomo dagli occhiali” e “Via dell’Angelo”) molto hanno da raccontarci sul senso della realtà che tentiamo di costruire oggi, al netto degli strumenti che il realismo magico, da un certo punto in avanti, ci ha fornito. Aggiungo, a sostegno della tesi che verrà, che questi racconti sono stati selezionati fra quelli scritti subito dopo il Secondo conflitto mondiale, primi anni Cinquanta, e quelli più antichi appartenenti alla gioventù morantiana e a quel libro dimenticato che fu “Il gioco segreto”. Dunque, Morante, fin da giovanissima, porta avanti un credo che si manterrà saldo almeno fino a “L’isola di Arturo”, forse anche fino a “La Storia”, e che poi invece verrà completamente sotterrato con la pubblicazione di “Aracoeli”. Ma questo è un altro discorso.

 

Si diceva quindi che, sia nei romanzi che nei racconti, Elsa Morante viene capita a posteriori, da chi la legge oggi. La mancata comprensione – almeno in buona parte – dei suoi coevi nasce dal fatto che pur riferendosi spesso a tempi mitici e lontani, Morante mantiene uno stile e un pensiero assolutamente vicini al presente, nello specifico a quello del secondo dopoguerra. Che non sia scrittrice neorealista, però, è vero (l’ha dimostrato presto, con l’uscita di un romanzo come “Menzogna e sortilegio”, nel 1948, in cui il fattore Storia resta sfocato sullo sfondo), e allora perché lei stessa ci tenne a sottolineare quanto fosse attaccata alla realtà, subito dopo aver vinto lo Strega con “L’isola di Arturo”?  Perché, per dirla con Cesare Garboli, “la certezza del mondo” in Morante – e in particolare ne “Lo scialle andaluso” – “convive con la percezione sotterranea e simultanea della sua irrealtà”.

 

In buona sostanza, com’è che Morante resta così prepotentemente attuale nella sua inattualità favolistica dell’epoca in cui visse e pubblicò? Perché il suo fiabeggiare scorrevole e disinvolto non è un modo per staccarsi dal velo del reale, ma semmai di sottolinearne la drammaticità, l’assurdo, il grottesco. E cos’è che noi facciamo di continuo, oggi? Cerchiamo una guida nel mondo inestricabile della fiaba nera che ci aiuti ad afferrare il filo per riemergere al mondo di sopra e comprenderne tutte le criticità.
Il bisogno di Morante di stregare la realtà non è un atteggiamento di superficie ma radicale, e le serve – attraverso l’ausilio dei fanciulli, di quei giovinetti che secondo lei sono gli unici a decifrare e ribaltare il mondo – a tirar fuori il fondamento del vero, che è il demone invisibile delle nostre vite.

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