Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Quando il dolore umano si trasforma in vera letteratura

Giulia Ciarapica

“Il campo di Gosto”, nuovo libro di Anna Luisa Pignatelli, è edito da Fazi 

Conobbi Anna Luisa Pignatelli nel 2016, quando uscì per Fazi Editore il romanzo “Ruggine”, e da lì in avanti non potei fare a meno di seguirla nella sua produzione che, più di ogni cosa, conserva dei tratti fortemente novecenteschi, tanto nello stile quanto nelle tematiche. Non per artifizio. Quello che Pignatelli espone nei suoi scritti è qualcosa che ha a che fare in concreto col Novecento, a partire dal modo in cui ne mette a parte il lettore.

Un tipo di dolore che è forse più dell’individuo moderno che non di quello contemporaneo. L’uomo del Duemila potrebbe aver dimenticato che tanto del suo malessere scaturisce ancora e sempre dalla mancata sottomissione, l’accettazione negata dell’individuo a opera della società.

Se la protagonista di “Ruggine”, Gina, sa che “su questa terra non c’erano che il bene e il male, che si affrontavano ogni giorno in una lotta all’ultimo sangue, e uno doveva decidere da che parte stare”, e se è vero che la protagonista di “Foschia”, Marta, è consapevole che “sia stata la delusione provata nello scoprire mio padre così diverso dal personaggio che ne avevo fatto, e il dolore per il nostro rapporto finito male” ad averla portata “alla morte”, è anche vero che Gosto, al centro dell’ultimo romanzo di Pignatelli “Il campo di Gosto” (Fazi), ricalca le orme di tutti i suoi predecessori letterari, mescolando l’apatia del vivere (“Steso sul materasso, gli parve di essere entrato nel tunnel silenzioso che si apre davanti a chi, terminata la vita attiva, ha per meta solo la morte”) con il disagio febbrile di chi vuol vivere in disparte, fuggendo le chiacchiere, le malelingue, i nemici. Più d’ogni cosa, Gosto non accetta di essere circondato da nemici.

Non perché ce ne siano di precisi – in realtà ce ne sono eccome, eppure non è questo il punto – ma perché vuole prendere le distanze dalla convinzione della moglie Zelia, che chiunque, varcata la soglia di casa, è pronto a far del male agli altri: “la sensazione di avere dei nemici lo turbava, lui non era come Zelia che lo considerava scontato”, si ripete spesso nel corso del romanzo.

È partendo da questi elementi, ricorrenti in tutta l’opera dell’autrice toscana, che si può individuare un filo conduttore che più novecentesco non si può, per l’appunto: la sconfitta apparente, la prevaricazione del male interiore, emotivo e sentimentale, sul buono e soprattutto sul giusto.

L’idea di giustizia (forse un filo sciasciana) che sottende gli scritti e che viene messa in bocca ai protagonisti, non collima con quel che accade nel resto del mondo. Se i personaggi di Pignatelli ricordano quelli di Italo Svevo, vicini come sono a quel concetto di vita marginale, modesta e in sordina che fa dell’inetto sveviano un essere debole e disilluso, dall’altro non possiamo negare la vicinanza della personalità di Gosto a quella del giovane scrittore protagonista di “Fame”, il romanzo di Knut Hamsun.

I picchi di rabbia, rari ma vivi, di Gosto somigliano ai deliri mentali del giovane di “Fame”, non a caso entrambi ingaggiano una personale e psicologica lotta contro la società, che diviene ogni giorno più aggressiva, turbolenta e opprimente.
Lo stile stesso di Pignatelli, nella sua pacatezza irrequieta, tipica della migliore produzione italiana del Novecento, è un grido d’aiuto soffocato e morente: l’autrice trasforma il dolore quotidiano, quella forma minuta d’infelicità umana, in vera letteratura.

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