grafica di Enrico Cicchetti

una fogliata di libri

Troppi surrogati hanno rimosso il più autentico dibattito critico

Matteo Marchesini

Ormai “i linguisti appaiono più autorevoli dei critici latitanti o ignorati”

Di recente durante un convegno torinese, sulla Stampa e poi a Fahrenheit di Radio 3, è riemersa una questione in Italia sempre attuale: quella del rapporto tra lingua e letteratura. La discussione ha preso spunto dal Dizionario Battaglia, il più importante dizionario storico della lingua italiana, frutto di un lavoro durato dal 1961 al 2001 e oggi consultabile in rete. Sollecitato sull’ipotesi di aggiornarlo, il 4 novembre il presidente della Crusca Claudio Marazzini ha dichiarato alla Stampa che “non è necessario, perché negli ultimi 50 anni gli scrittori italiani non hanno avuto la funzione letteraria sulla lingua propria dei tempi precedenti”.

 

Difficile muovere obiezioni a questa diagnosi. Nell’ultimo mezzo secolo la letteratura è divenuta via via meno rilevante nella cultura generale, e quindi anche come terreno di formazione dell’immaginario, dello stile, dei luoghi linguistici.

 

Ma la risposta di Marazzini suggerisce altre domande. Ad esempio, spinge a chiedersi che rapporto abbiano gli studiosi della lingua con le odierne opere di poesia. Le conoscono davvero? O credono soltanto di conoscerle, e accettano il panorama falso che ne offre l’industria mediatica? Perché cinquanta, o meglio sessant’anni fa, è successa anche un’altra cosa: si è cioè affermata in Italia una spregiudicata industria della cultura; e al contempo, per rendere didatticamente trasmissibile nelle università di massa un sapere che di per sé lo è poco, gli esperti di problemi letterari si sono rassegnati agli approcci teoricisti o iperspecialistici. Questi due fenomeni hanno contribuito in maniera determinante a rimuovere un autentico dibattito critico, e a sostituirlo con i più vari surrogati.

 

Ora che la letteratura sembra davvero marginale, e perché se ne parli occorre convincere l’opinione pubblica che è “anche altro”, gli studiosi si aggrappano alle teorie neurobiologiche dissolvendola in un’antropologia dello storytelling; e i linguisti, senza fare invece nessuno sforzo, appaiono più autorevoli dei critici latitanti o ignorati. Ma messi davanti a una pagina contemporanea, senza bibliografia alle spalle, questi linguisti avranno poi l’intuito (storico, stilistico, psicologico) necessario a interpretarla in modo attendibile? C’è da dubitarne. Perfino il compianto Serianni, quando ha provato a inserire nel canone secolare della nostra lirica alcune poesie del secondo Novecento, ha scelto testi del tutto improbabili, accettando in sostanza il “si dice” della chiacchiera accademico-editoriale. Un’ultima domanda che si lega naturalmente a questa discussione riguarda infine l’idea del valore estetico. Per deformazione professionale, ma anche per acquiescente adesione alle più influenti poetiche moderne, i linguisti, i filologi e gli storici della lingua tendono a identificare la letteratura migliore con quella che innova il lessico in forme vistose, espressivamente un po’ gastronomiche.

 

Così, anche sul piano dell’esame specialistico, la situazione si fa paradossale. Le nostre biblioteche si riempiono di pletoriche analisi sulle infrazioni alla lingua comune di Gadda o Sanguineti, infrazioni che possono essere colte a occhio nudo da un lettore qualunque; mentre mancano proprio quegli studi che esigerebbero una sensibilità più esercitata.

  

Perché, ad esempio, i “tecnici” non ci spiegano il miracolo per cui in Sandro Penna una lingua lisa, pascolian-dannunziana, sembra a un tratto luminosa e nuova? O non ci spiegano l’inapparente ma infallibile esattezza con cui Moravia sceglie i suoi aggettivi, e il funzionamento di quella sua “meravigliosa lingua di plastica” che, diceva Luigi Baldacci, i più nemmeno avvertono? Ma già, per farlo ci vorrebbe appunto lo spirito critico; che spira dove vuole, e spesso non sui ruminanti degli studi di settore.