Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti su foto Al Gretz/Keystone Features/Getty Images 

Eliot e la sua lagnanza contro la vita davanti al caos odierno

Matteo Marchesini

Un volume uscito per Interno Poesia, a cent’anni dal suo primo incontro col pubblico ripropone “La terra desolata” nella versione insieme fedele e fluida approntata da Chinol mezzo secolo fa

Nel 1948, l’anno in cui ebbe il Nobel, T. S. Eliot ricevette la visita di un giovane traduttore italiano, munito di una lettera di raccomandazione firmata da Eugenio Montale. Il ventenne Elio Chinol aveva allora in testa un’idea tutta rilkiana dei poeti: li immaginava come volatili misteriosi, un po’ angelici e un po’ demoniaci. Così si ostinò a vedere e a descrivere in questo modo anche Eliot. Ma dentro di sé, il visitatore sapeva che le cose stavano altrimenti. L’uomo col quale aveva parlato era agli antipodi delle leggendarie figure romantiche o simboliste: con la sua puntigliosa “gravità professorale”, tendeva anzi a castigare ogni minimo accenno di slancio prometeico, considerato ormai sconveniente in un’epoca in cui enormi forze storiche schiacciavano l’individuo e rendevano ridicole le sue smanie di mostrarsi speciale.

 

Leggo questo bel ricordo eliotiano in un volume uscito per Interno Poesia, che a cent’anni dal suo primo incontro col pubblico ripropone “La terra desolata” nella versione insieme fedele e fluida approntata da Chinol mezzo secolo fa. Come è noto, il poemetto più celebre del misuratissimo, pragmatico Eliot nacque dalla collaborazione con il vulcanico e velleitario Pound, molto più efficace nel fare editing sugli scritti altrui che sui propri. Il “miglior fabbro” a cui è dedicato “The Waste Land” convinse infatti l’amico a tagliarne una buona metà, e ad abolire i nessi narrativi. Restò un collage di brani strappati ai tempi, alle tradizioni, ai livelli linguistici più disparati.

   

Con effetti di dissolvenza e di contrasto molto suggestivi, nella “Terra desolata” si mischiano le guerre puniche e i reduci della Grande guerra, i palazzi sontuosi dei sovrani e gli squallidi appartamenti cittadini, gli amori antichi e quelli di una dattilografa, il linguaggio solenne dei classici e il gergo volgare da osteria, Tiresia e il Graal, il Vangelo e le Upanishad, Wagner e le canzonette in voga. Se in questo miscuglio le scene della quotidianità più umiliata appaiono struggenti, è grazie al tono elegiaco e sapienziale del canto da cui affiorano e in cui tornano a sfumare. A tenere insieme i pezzi contribuisce il leitmotiv della sterilità, dell’impotenza, della dantesca ignavia. Il famigerato aprile dell’incipit è “il mese più crudele”, anziché il più gioioso, perché costringe ad agire degli esseri umani ormai del tutto passivi, degli zombie colpevoli abituati ad aggirarsi in una metropoli non più baudelarianamente “brulicante” di corpi ma resa “irreale” dagli spettri e da un’apocalisse imminente.

  

L’autore avrebbe poi definito quest’opera, composta durante un esaurimento nervoso, una troppo privata “lagnanza contro la vita”. Eppure il posto che Eliot occupa nel Novecento è legato al suo montaggio, assai più che al discorso poetico in cui prima (con “Gerontion”) e dopo (con “Gli uomini vuoti”, il “Mercoledì delle ceneri” e i “Quattro quartetti”) cercò di organizzare il caos del mondo. Rispetto alla successiva conversione tradizionalista, i suoi lettori hanno trovato più credibile lo smarrimento del ’22, con quel chiacchiericcio desolato che prevale su ogni tentativo di “dare una forma e un significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea”, secondo il metodo mitico individuato da Eliot in una recensione all’“Ulisse”.

 

“Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”, dice uno degli ultimi versi del poemetto. Nel 1910, Forster aveva premesso al suo “Casa Howard” il motto “Only connect”. Un decennio più tardi, in un occidente devastato dalla carneficina, una delle tante voci della “Waste Land” constata che “Non riesco a connettere / Nulla con nulla”. Oggi siamo ancora a questo punto.
 

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