grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Gente di cultura e grandi idee: tutti potenziali mezzemaniche

Giulia Ciarapica

Come non sentirsi esattamente così quando rileggiamo ‘I mezzemaniche’ di Georges Courtelin

Immagino ricordiate le parole di Calvino sui classici: “Di un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”, “è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Come non sentirsi esattamente così, avventurieri per la seconda, terza, quarta volta, come se fosse la prima, quando rileggiamo Dickens, Balzac, Deledda? E come non sentirsi esattamente così quando rileggiamo un capolavoro della letteratura francese come “I mezzemaniche” di Georges Courteline, che si fa beffe del mondo impiegatizio incastonando i suoi personaggi in uno scenario di “catacombe amministrative che talvolta un freddo glaciale riempie”?

 

 
Courteline è uno di quegli scrittori cui va riconosciuto un gran merito, a parte il talento per la narrazione e soprattutto per le descrizioni, che non sono tanto dettagliate – il dettaglio in sé, a volte, non fa la differenza – quanto prepotentemente verisimili. Ebbene, di lui ricorderemo sopra ogni cosa l’aver saputo dire la verità, senza risparmiarsi e senza congetturare un romanzo che piacesse al pubblico o alla gente che piace. Chi lo conosceva, sapeva che Courteline diceva tutto quello che gli passava per la testa, e la realtà, quand’è riportata senza filtri – se non quello dell’occhio umano, che vede e propone secondo il suo grado di adesione alle cose –, ha sempre qualcosa di incredibile, di fantastico, mostrandosi finalmente per quel che è. E molto spesso non è che un ammasso di cianfrusaglie trascurabili, tremende nel loro grigiore e pur tuttavia indispensabili alla vita di chiunque.

 
Courteline ce lo ricorda, ci dice quanto siano miserabili i mezzamaniche, impiegatucci di città che imbastiscono il quotidiano attorno alle quattro mura del palazzo, ma così facendo lo scrittore scomparso negli anni Venti del Novecento (badate, un secolo fa) ci ha ricordato pure che non solo, ancor oggi, quell’universo polveroso gode della stessa, impietosa rappresentazione, ma che in fondo anche noi – intellettuali, scrittori, gente di cultura e grandi idee – possiamo essere, chi più chi meno, prevedibili mezzemaniche.

 

  
C’è chi, ad esempio, con l’arrivo dei social ha sacrificato l’urgenza della scrittura a quella della visibilità, lasciandosi forse trascinare da una specie di “mollezza in tutto l’essere, da un bisogno di lasciarsi vivere, tranquillamente, senza alcun pensiero”, a dispetto di qualsivoglia senso del dovere nei confronti del lavoro, proprio come accade a René Lahrier, personaggio principale del romanzo di Courteline; oppure c’è chi, come il vice capo Van der Hogen, figura epica e paradossale, si dedica alla “confisca a suo vantaggio del lavoro dei colleghi” per far bella figura con i superiori.

 
Di esempi è ricco il romanzo così come di modelli è ricca la realtà, ma chi possiede oggi lo stesso coraggio di Courteline nel dar prova al lettore di saper riconoscere il vero dal falso, senza trucchetti né edulcorazioni? Ci spaventiamo di fronte al dolore, ci preoccupiamo di dosare le parole per evitare lo shock di chi legge, ma perché non ci preoccupiamo di ridare alla Letteratura il suo ruolo principe, quello di rompere per poi ricostruire? Abbiamo bisogno di impiegati dell’intrattenimento o di gente che racconta di altra gente, senza sforzarsi di trovare il buono, il bello e il salvifico anche laddove non c’è?

 
Ecco a cosa servono i Courteline: a capire in che direzione non stiamo andando e cosa ci stiamo perdendo.