Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

una fogliata di libri

La rimozione della vita nella poetica di Bontempelli

Matteo Marchesini

L'uomo bontempelliano è un automa, un manichino metafisico. Ma a poco a poco, lo scrittore prova a rianimarlo attraverso quel realismo magico che insegue il miraggio di una semplicità maestosa e straniata

Per “neoavanguardia” s’intende un variegato gruppo di ideologi, teorici e scrittori che negli anni ’60 recuperarono e liquidarono in forme ludiche o sinistre la lezione delle avanguardie storiche. Ma una neoavanguardia meno pedante e più snella l’Italia l’aveva già avuta negli anni ‘20 grazie ad Alberto Savinio e a Massimo Bontempelli. Nel primo dopoguerra Bontempelli aveva pubblicato due formidabili antiromanzi, “La vita intensa” e “La vita operosa”, più alcune pièce che gettano un ponte tra Pirandello e il teatro dell’assurdo. A questa altezza l’uomo bontempelliano è un automa, un manichino metafisico. Ma a poco a poco, in coerenza col ritorno all’ordine, lo scrittore prova a rianimarlo attraverso una poetica paradossalmente classicista: quel realismo magico che insegue il miraggio di una semplicità maestosa e straniata, e che come tanta cultura coeva cerca invano di creare a tavolino dei miti di massa. Nascono così, tra fine anni ‘20 e fine anni ‘30, le narrazioni di “Il figlio di due madri”, “Vita e morte di Adria e dei suoi figli” e “Gente nel tempo” (1937), oggi riproposto dall’editore Utopia con una prefazione di Marinella Mascia Galateria.

    

“Gente nel tempo” non è un libro riuscito, ma è significativo per capire un progetto culturale che ha avuto la sua importanza. Il problema è che se è chiaro cosa Bontempelli intende evitare, meno chiaro è dove voglia o possa arrivare con il suo stile traslucido. Il narratore fugge dal romanzo naturalistico; ma non avendo un’altra meta solida cui approdare, più che abolirlo lo rarefà, lo svuota internamente, o ne trucca le strutture con abilità capziosa. Di qui la suggestione, e insieme l’incertezza dell’esito. In “Gente nel tempo” una fatalità irrealistica, da tragedia arcaica, si sovrappone a datatissimi dettagli della provincia italiana e a relazioni tipicamente borghesi (sono centrali, al solito, i figli e le figure femminili). I personaggi sembrano statue incapaci di toccarsi, divi del muto isolati in una architettura déco: ognuno ha il suo capitolo, la sua nicchia squadrata. Ma mentre il loro autore ci mostra i fili con cui li muove, distanziandoci così dagli eventi, al tempo stesso pretende che la storia ci tenga col fiato sospeso. E questa storia esemplifica proprio la rimozione della vita sulla quale si basa la poetica bontempelliana.

    

Ogni cinque anni, nella famiglia Medici muore qualcuno. E’ un destino genealogico stabilito nelle prime pagine, a partire dalla profezia della matriarca, che non si sa bene se lo fondi o soltanto lo esegua con lungimiranza suprema. “Tutto è regola, nella vita e nella morte” sentenzia la Gran Vecchia dal suo letto, col tono di chi traccia un grafico pandemico. Poi caccia i parenti come si caccerebbe un nugolo di mosche, e muore nella solitudine in cui si avvolgono sparendo i semidei. Presto la vicenda delle generazioni successive conferma la profezia. Né legami estranei né viaggi oltre i confini della tenuta famigliare attenuano il decreto numerologico. Senza la guida della Vecchia, ormai ridotti a ombre, i suoi discendenti cadono a distanze regolari. Prima Bontempelli inquadra Silvano e Vittoria, di cui la matriarca ha programmato perfino la fecondità. Silvano fa programmi astratti, libreschi, esaurendo nella demenza la spinta propulsiva della madre. Sua moglie invece, dopo la scomparsa della suocera, rifiorisce per una breve stagione, ma non riuscendo a trasformare i suoi afflati in una esistenza piena rimane circondata da un’“aura di inaderenza”.

   

Poi ci sono le nipoti, Nora l’avventurosa e l’ossessiva Dirce, che crescono tra silenzi e improvvisi scoppi di violenza, dibattendosi nella rete ferrea e invisibile dei lustri fatali. Alla fine la consapevolezza inumana di dover morire secondo una regola che sta tra il teorema e il gioco d’azzardo – a chi toccherà prima? - porta a galla nelle ragazze le reazioni più estreme e contraddittorie: attaccamenti morbosi, istinti protervi di sopravvivenza, spiriti di sacrificio senza fede, speranze abiette, e in ultimo un tentativo di degradarsi fino a perdere coscienza di sé che appare l’unico modo possibile per sfuggire all’angoscia. Perché “La vita è essere incerti”, e quindi in un sistema del genere non può darsi. Del mondo, dell’esistenza e del romanzo si trovano in “Gente del tempo” solo le insegne, i cartelli indicatori. Ma al loro posto non nasce il mito: resta anch’esso un cartello indicatore, un’affermazione di principio che sorge dal nulla e nel nulla ritorna. “Ci vuole molto più e molto meno che Roma per essere vivi” recita uno dei tanti aforismi che si possono staccare dal contesto: e questa fiction da medium, o da designer, usciva proprio mentre l’urbe imperiale a cui Bontempelli non credeva più si avviava verso cinque anni di catastrofe.

  

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