Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

Una fogliata di libri

Capire George Orwell prima di ridurlo a semplice aggettivo

Matteo Marchesini

Lo scrittore è riuscito a trasformare “la scrittura politica in arte” grazie a un genio stilistico e morale che anche dopo la guerra fredda i nostri intellettuali continuano a non apprezzare, considerandolo troppo prosaico

Nel 2021 scade il copyright sull’opera di George Orwell, e diversi editori stanno già proponendo in una nuova versione i libri di questo grande scrittore inglese, che così spesso è stato ridotto a un aggettivo proverbiale prima di essere capito. Sellerio stampa “Millenovecentottantaquattro” nella traduzione di Tommaso Pincio, mentre Garzanti ci offre una “Trilogia della libertà” che oltre alla “distopia realista” del Grande Fratello contiene “La fattoria degli animali” e “Omaggio alla Catalogna”. Buona idea, quella di unire ai due testi più famosi il resoconto sulla guerra civile spagnola. Perché è nei mesi trascorsi tra il fronte aragonese e Barcellona che Orwell registra per la prima volta i metodi con cui l’ideologia fa sparire la verità e gli esseri umani che la testimoniano. Dopo avere rischiato la vita nelle milizie del POUM, lo scrittore e i suoi compagni sono braccati dai funzionari governativi al soldo di Mosca, che per eliminare le sinistre eterodosse fingono di crederle una quinta colonna di Franco. Il dissenso diventa tradimento. Discutere con un comunista fedele al Comintern è ormai come giocare a scacchi con qualcuno che di colpo si mette a gridare “che il suo avversario è un incendiario o un bigamo”. Un tale comunista, conclude Orwell, affermerà che “ho mentito o (…) che sono stato fuorviato senza speranza e che chiunque abbia gettato un’occhiata ai titoli del Daily Worker a mille miglia di distanza dalla scena degli avvenimenti ne sa più di me su quanto accadeva a Barcellona”. Per spiegare perché alla propaganda sovietica cedano anche dei fini intellettuali, Orwell avanza un’ipotesi ancora valida: reprimendo in sé i sentimenti nazionalisti che giudicano volgari, ma non potendo annullarli, questi intellettuali li trasferiscono su una patria sconosciuta e mitizzata (dopo l’Urss Cuba, o il Venezuela…). L’antidoto orwelliano al loro fanatismo è il reportage autobiografico, che esplicita con scrupolo la parzialità del punto di vista e fa dello sguardo personale uno strumento per raggiungere la maggiore obiettività possibile. Orwell non mitizza le sue imprese, anzi rappresenta con molto humour la monotonia della guerra. Il tono è lo stesso che usa descrivendo quel che gli è capitato facendo il recensore, il libraio o il poliziotto. Gli basta un breve aneddoto per restituire la complessità delle reazioni umane nelle situazioni più estreme e più normali. Volendo dimostrarci che i tiranni divengono schiavi dei loro schiavi, ci racconta come in Birmania abbia sparato suo malgrado a un elefante in fuga solo “per non passare per un idiota” davanti alla folla indigena che esigeva da lui il contegno di un pukka sahib; e volendo ricordarci quanto è assurda la routine bellica, ci racconta invece come in Spagna non abbia sparato a un nemico seminudo perché “un uomo che si regge i pantaloni che stanno per cascargli non è un fascista”.

   

Orwell riesce a trasformare “la scrittura politica in arte” grazie a un genio stilistico e morale che anche dopo la guerra fredda i nostri intellettuali continuano a non apprezzare, considerandolo troppo prosaico. Nella letteratura preferiscono in genere un estetismo nobilitante (vedi Bernhard) e nel pensiero quei filosofi che nascondono le inclinazioni etiche dietro una pretesa oggettività ontologica (Marx, Heidegger, Deleuze). In Orwell la radice individuale di ogni scelta è invece apertamente dichiarata – e proprio contro chi, pretendendo di far coincidere fatti e valori, finisce per cancellare gli uni e gli altri. Nei suoi scritti, gli inganni “totalitari” assumono una forma che richiama il doppio legame teorizzato da Bateson: ricevendo dal suo ambiente delle prescrizioni contraddittorie, che non può facilmente eludere né demistificare, un soggetto viene spinto al limite della schizofrenia. Il double bind non è solo parente stretto del doublethink, il bipensiero di “1984” che esige di “ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda”, ma anche delle “leggi assolute come la forza di gravità, ma che m’era impossibile osservare” alle quali è sottoposto il piccolo Eric Blair nella preparatory school di St. Cyprian, e del doloroso stallo provato in Birmania dal poliziotto diviso “tra il mio odio per l’impero che servivo” e la voglia di “piantare una baionetta nella pancia di un prete buddista”. Quanto ai suoi primi entusiasmi socialisti, lo scrittore ricorda un periodo in cui consumava “la metà del tempo a denunciare il sistema capitalistico e l’altra metà a infierire sull’insolenza dei bigliettari di autobus”. Proveniente dallo strato più povero di una borghesia snob, Orwell ha combattuto per una “dignità comune” in nome della parte di sé umiliata, ricattata ma anche sopraffattoria; quella parte che tanti altri intellettuali piccolo-borghesi del Novecento, meno onesti di lui, sublimarono in un sofistico culto della forza.

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