Il capofamiglia

Gaia Montanaro

La recensione del libro di Ivy Compton-Burnett (Fazi, 348 pp., 19 euro)

La conversazione è l’arte perduta (e molto anglosassone) che regge le oltre trecento pagine di uno dei libri maggiormente amati da Ivy Compton Burnett, scrittrice mai sufficientemente celebrata che con Il capofamiglia aggiunge un tassello alla sua produzione letteraria pubblicata in italiano. Il patriarca in questione è Duncan Edgeworth, marito indifferente – padre arcigno e zio sprezzante – che vive con la famiglia in una tenuta inglese durante il periodo vittoriano. Gli Edgeworth sono benestanti e si connotano nelle relazioni tra loro per un finto perbenismo che nasconde ipocrisie e battute al vetriolo. Una cattiveria sottile e arguta abita i dialoghi tra i personaggi: le due figlie Nance e Sybil, agli antipodi come carattere e visione delle cose ma entrambe fornite di lingua affilata, la madre Ellen, donna remissiva che si eclisserà molto presto nella storia innescando una serie di meccanismi narrativi che porteranno a disvelamenti e sorprese e uno stuolo via via in corso di definizione di domestici. Come in una sorta di Downton Abbey su carta, scevra però da qualsivoglia cenno di buonismo, la trama si fa ricca di amori e intrighi, eredità e sotterfugi. Il capofamiglia si risposa con Alison – ragazza un bel pezzo più giovane di lui – e avranno un bambino (rigorosamente maschio, urrà), salvo poi scoprire che il piccolo Richard è in realtà figlio del nipote di casa Edgeworth, il donnaiolo Grant. Duncan quindi ci riprova per la terza volta ma anche il matrimonio con Cassie, ex governante della famiglia, non si potrà certo dire entusiasmante. Queste tre generazioni ruotano tutte attorno al nucleo famigliare che è il fulcro del racconto e anche della vita dei personaggi. Il loro ruolo, le loro caratteristiche, il modo di pensare e persino le aspirazioni personali sono subordinate e funzionali al microcosmo famigliare, dominato dall’apparenza e che permette uno spiraglio di libertà solo nelle conversazioni. E’ infatti nel dialogo, vero protagonista della storia che occupa quasi interamente, che si svela la natura profonda dei consanguinei, quello che pensano davvero, ciò che con sottigliezza e acume scelgono di non celare. Come in una pièce teatrale, non si risparmiano stoccate vicendevoli che danno movimento al racconto, molto omogeneo dal punto di vista del tono. La parola è azione, lo hanno detto in tanti. Ma per Ivy Compton Burnett pare essere una vera e propria stella polare. La parola è ciò che fa esistere il racconto, che concreta i personaggi, che ne definisce il perimetro esistenziale e personale. “Abbiamo insegnato a questi giovani a dipendere dall’opinione altrui” dice Duncan alla moglie Ellen. E’ l’opinione ciò che conta, quello che degli altri si dice e si pensa. Anzi, non sempre si dice ma sempre si pensa. Perché nelle interazioni tra i personaggi della Burnett è paradossalmente il non detto quello che pesa d i più, il sottotesto appena accennato tra una tazza di tè e un pranzo a tavola con minimo sei posate a testa. Risultato: tutti infelici. O quasi.

 

Ivy Compton-Burnett
Il capofamiglia
Fazi, 348 pp., 19 euro

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