Broch fa quello che fa Musil con il ritmo di Joseph Roth

Matteo Marchesini

La dissoluzione del mondo mitteleuropeo nel primo Novecento e l'irrealtà derivata dalla mancanza di una visione del mondo solida e condivisa

La dissoluzione del mondo mitteleuropeo nel primo Novecento ci è stata raccontata da due grandi scrittori agli antipodi: Robert Musil, che negli indugi della sua prosa fa cozzare un intellettualismo quasi ascetico con una materia bruta; e Joseph Roth, che con piglio da narratore puro spinge le vicende umane in una corsa accelerata verso il nulla. Leggendo la nuova edizione adelphiana di “Pasenow o il romanticismo”, il primo libro della trilogia “I sonnambuli”, si direbbe che a inizio anni Trenta Hermann Broch abbia trovato un punto di equilibrio tra le due prospettive.

 

I presupposti che reggono la sua opera sono saggistici, ma il discorso è interamente assorbito in una narrazione che cade rapida a piombo: Broch fa quello che fa Musil con il ritmo di Roth. Come annota Kundera negli appunti in appendice, l’unità dei “Sonnambuli” non dipende dalla continuità dell’azione o della biografia dei personaggi, ma da un “tema”. Non a caso è uno di quei romanzi che vengono traditi non solo da una esposizione anche accurata del plot, ma persino da un’ampia citazione delle scene principali.

 

La storia è uno scheletro convenzionale, che riflette il vuoto esistenziale dei protagonisti, e non viene redenta da uno “stile”. A contare è piuttosto il tono, in cui si fondono una cupa indifferenza e un’ironia dolorosa. Il narratore descrive ogni evento come se fosse ineluttabile e al tempo stesso immotivato. Il suo sguardo può posarsi ovunque senza cambiare espressione: un dettaglio minuscolo, la cornice monumentale di un’epoca, un mediocre dialogo romantico… Anche per questo si ha l’impressione di sprofondare in un incubo leggero, ma dal quale è impossibile svegliarsi; un incubo che avvolge tutto, come accade anche in Musil e Roth, i cui personaggi agiscono a loro volta da sonnambuli o da ipnotizzati in un’atmosfera altrettanto irreale. L’irrealtà deriva dalla mancanza di una visione del mondo solida e condivisa. E il tema brochiano è infatti la metamorfosi dell’uomo “di fronte al processo di disgregazione dei valori”.

 

Joachim von Pasenow, giovane Junker inibito e terrorizzato da una complessità sociale che non riesce a comprendere, raggiunge una pace relativa soltanto in quella parodia del sacerdozio che è l’esercito. Chiuso nell’uniforme dimentica “gli indumenti che stanno sotto, e l’incertezza della vita, anzi, la vita stessa si fa remota”. Così trasalisce davanti alle sue manifestazioni più comuni, che gli appaiono ripugnanti e vergognose. La ricerca di armonia e di amore è per lui inconciliabile con il nudo corpo umano. Quando visita la casa dei futuri suoceri, la cui uniforme consiste nel ridurre tutto ciò che è estraneo a una proprietà famigliare, trova spaventoso che le abitudini più rispettabili possano essere mantenute accanto alla stanza dove si celebrano i riti del sesso. La prima notte di nozze vorrebbe addirittura montare la guardia alla camera da letto di sua moglie Elisabeth, che gli piace immaginare come una “dolcissima argentea Madonna” o una “Biancaneve nella sua bara di cristallo”, ma il cui viso gli si rivela a volte un paesaggio indistinto, e sullo sfondo dei pesanti arredi domestici gli comunica una specie di gelida angoscia wagneriana. Eppure Joachim, secondo la classica dicotomia dell’amore occidentale, oltre a quello platonico con Elisabeth conosce un rapporto molto carnale con l’entraineuse ceca Ruzena: tra le sue braccia accetta di perdersi nell’indistinto. Ma anche la sua figura gli sembra sempre diversa, e nemmeno a lei sa assegnare il giusto ruolo. Questo prussiano rigido e infantile è incapace di collegare in maniera attendibile le proprie percezioni e conoscenze. Perciò, come osserva Kundera, si aggrappa a un pensiero magico: trasforma tutto in simbolo, e prova a interpretare ciò che accade costruendo un sistema paranoico di somiglianze tra persone e situazioni. Questo tentativo, e insieme il bisogno di liberarsi dalla fatica che gli costa, lo inducono poi a individuare una guida esterna. Joachim è ossessionato da Bertrand, un ex commilitone che si è spogliato dell’uniforme, diventando un uomo d’affari ed entrando così in quella borghesia cosmopolita che agli occhi del protagonista, diviso tra gli incarichi berlinesi e i feudi di campagna, rappresenta un caos senza gerarchia ancora più inquietante della classe operaia. Ogni intervento di Bertrand gli appare mefistofelico, eppure non smette di sperare nel suo consiglio anche riguardo alle vicende più private e imbarazzanti. Lo crede onnipotente, e immagina che fili misteriosi lo leghino a Elisabeth e a Ruzena; ma in realtà questi fili sarà lui a tesserli, presentandolo a entrambe le donne. Joachim è cieco, e Bertrand vede tutto: due condizioni in cui non si può vivere pienamente. Bertrand, che ha fronteggiato e compreso il nulla, è scettico, fatalista, costretto a constatare che le più varie possibilità si equivalgono; Joachim porta questo peso senza potergli dare un nome. Visto che non sa filtrarli, gli esseri e gli oggetti sfiorati casualmente per un attimo lo assediano come presenze mostruose, mentre di ciò che dovrebbe appartenere al suo intimo, come la memoria del fratello Helmut morto in duello, custodisce un’idea puramente formale. “E’ caduto per l’onore” ripete il padre ormai demente ricordando Helmut: e nessuno in famiglia ha altre parole che possano esprimere l’affetto, cioè in fondo farlo esistere. Bertrand definisce l’onore “indolenza del sentimento”, e sostiene che i nostri sentimenti rimangono indietro di mezzo secolo rispetto alla vita quotidiana: persino gli illuministi, osserva, accettavano tranquillamente certe pene barbare che erano residui di epoche passate. Ma la fine dell’Ottocento non è l’età dei lumi, e viene da chiedersi se la vita in rapida trasformazione non sia ora più disumana dello spirito che conserva sentimenti “superati”. In ogni caso, né il militare né l’uomo d’affari sanno più rendere significativo il mondo.

 

L’alternativa del pensiero simbolico di cui parla Kundera non è infatti la concretezza troppo astratta della ragione, ma piuttosto la vitalità di simboli, cioè valori, fortemente sentiti da una comunità e al tempo stesso non accecanti. I simboli non devono occultare ciò che non possono chiarire, ma nemmeno dissolversi completamente. Altrimenti, è lo stesso Kundera a notarlo, dove una realtà, e magari una realtà tragica, rimane “simbolicamente muta”, noi tendiamo a rimuoverla. Oppure, se è tanto invasiva da costringerci a reagire, non sapendo interpretarla l’affrontiamo in modo delirante. In Joachim è proprio il vuoto di simboli credibili e condivisi a produrre un pieno di simboli incredibili e idiosincratici: qualunque incontro diventa per lui un segno oscuro, inspiegabile e dunque spiegato con una fantasia folle, in cui il sospetto del complotto si alterna continuamente all’euforia di chi pensa di aver trovato la chiave di tutti i segreti. E’ una situazione che conosciamo bene, noi sonnambuli.

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