Quel misterioso filo rosso che lega Sciascia e Dostoevskij

Giulia Ciarapica

Per entrambi il nucleo generatore è quello del delitto che occupa un posto centrale: qual è il destino di colui che oltrepassa il limite consentito, dunque di chi uccide?

E’ dai tempi della scuola che sentiamo parlare di interdisciplinarietà o, per farla semplice, di collegamenti, di rimandi. Ci hanno insegnato che, anche a distanza di decenni, certe situazioni – soprattutto storiche, ce lo ricorda Vico – possono ripresentarsi, e che talvolta le tendenze letterarie subiscono gli influssi di ciò che è già stato. Insomma, ci ritroviamo spesso alla ricerca di un fil rouge, o semmai di qualcuno che ci narri di un’indagine – umana, esistenziale, filosofica, dunque letteraria. E di quest’indagine cosa potremmo dire? Che è compiuta da un soggetto scrivente, che è quasi sempre instancabile, talvolta vana, ma soprattutto che rincorre una qualche idea di verità – o anche un surrogato della stessa.

 

Proprio di verità e della sua investigazione (uso questo termine non a caso) potremo parlare in riferimento al ruolo dello scrittore. Cosa dovrebbe fare lo scrittore? E che ruolo ha la scrittura? “I romanzi mentono – non possono fare altrimenti – ma questa è solo una parte della storia. L’altra è che, mentendo, esprimono una strana verità, che può essere espressa solo se mascherata da quello che non è”, scrive Vargas Llosa, e dunque va da sé che una verità, da qualche parte, dovrà pur esserci. Se su Sciascia e sul nesso “letteratura-verità-realtà” ha disquisito parecchio – con la solita comprovata acutezza – Massimo Onofri, Antonina Nocera, autrice di un saggio mirabile dal titolo “Metafisica del sottosuolo” (Divergenze Edizioni), in un certo senso si spinge oltre muovendo proprio dalla scrittura.

 

“I fili che uniscono scritture anche molto lontane possono essere sorprendentemente sottili e al contempo resistenti come quelli di seta” scrive la Nocera, “uno su tutti la naturale attitudine a considerare la scrittura come metodo di indagine sull’uomo, inteso come unità misteriosa su cui è impossibile mettere un punto definitivo”: ecco che l’autrice, per delineare un sorprendente legame tra l’italiano Sciascia e il russo Dostoevskij, parte dalla scrittura. Cosa lega i due scrittori? A questa domanda cruciale occorre anticipare una premessa ancor più cruciale: Sciascia ha sempre sostenuto di non amare Dostoevskij. Iniziamo restringendo il campo di azione: “Il contesto” per Sciascia (romanzo del 1971) e “I fratelli Karamazov” per Dostoevskij (più “Delitto e castigo”).

 

Ad un certo punto de “Il contesto” Sciascia cita il terzo volume de “I fratelli Karamazov”, che si trova sul comodino di Cres, ex condannato per uxoricidio assolto dopo cinque anni, e ora uno dei maggiori indiziati (irrintracciabile) del delitto del giudice. Tanto l’opera sciasciana quanto quella dostoevskiana sono di matrice poliziesca ma del poliziesco non hanno le fattezze classiche, o non del tutto, perché lo scopo principale è la riflessione sulle dinamiche psicologiche e interiori che agitano il colpevole, tanto che, in entrambi i casi, è la “sciarada giudiziaria” a prendere la scena, ossia la ricerca del capro espiatorio che va a vuoto innescando un sistema di domande e interrogativi assai vorticoso. Ma, a parte la citazione de “I fratelli Karamazov”, Sciascia e Dostoevskij hanno un legame più stretto a livello ontologico, anzi, di “crimine ontologico”, come si intuisce dall’analisi de “Il contesto” in relazione a “Delitto e castigo”. Per entrambi, il nucleo generatore è quello del delitto che, tanto nello scrittore italiano quanto in quello russo, occupa un posto centrale: qual è il destino di colui che oltrepassa il limite consentito, dunque di chi uccide? Quali sono le conseguenze ontologiche? Raskol’nikov e l’ispettore Rogas, ad un certo punto, si ritrovano sul medesimo piano. Ma c’è di più.

 

A parte la questione dell’errore giudiziario, il punto di giuntura è da scovare nella struttura dei casi di coscienza: le tappe dostoevskiane del male, come dice Nocera, vengono acquisite e messe in discussione dai personaggi di Sciascia in un viaggio nel “sottosuolo” innescato dal meccanismo della rivelazione: la questione della libertà originaria perseguita fino alle estreme conseguenze (il delitto), la svolta nichilista (di Riches in Sciascia, del Grande Inquisitore in Dostoevskij) ed infine la ribellione interiore (di Nocio, lo scrittore sciasciano, e di Ivan Karamazov). Il cammino è, a conti fatti, molto simile, perché ad accomunare i personaggi nella loro diversità di azione e luoghi è il rovello interiore, la parabola nichilista e la demolizione dell’ordinamento razionale della vita.

 

Insomma, per dirla con Wim Wenders: così lontano così vicino.

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