Le lacrime di Roma

Claudia Gualdana

Recensione del libro di Sarah Rey edito da Einaudi (XII-164 pp., 24 euro)

All’inizio della sua sfolgorante carriera, a Cadice, il giovane Giulio Cesare si ritrova ai piedi di una statua di Alessandro Magno. Il condottiero piange e neanche si prende la briga di dissimulare l’emozione. Si dispera al pensiero di non aver ancora compiuto gesta degne del suo modello. Le sue lacrime sono politiche: rientrano nello schema dell’aemulatio Alexandri. E’ un pianto “alla greca”, lecito nel contesto dell’evocazione delle glorie elleniche, di cui i romani si sentono essere eredi e continuatori. Quindi le lacrime a Roma scorrevano anche su gote maschili, purché lo facessero al momento opportuno. Un conto è infatti patire perché non si è pari ad Alessandro, un altro è disperarsi per amore. Perciò si critica l’imperatore Adriano quando versa lacrime – di gran lunga più sincere – per la morte di Antinoo, il giovane amante greco. Le lacrime seguono un copione preciso nell’Urbe perché la civiltà romana è virile e guerriera: il pianto libero è cosa da donne, tutt’altra storia, per esempio, è piangere per la distruzione di Veio. Nel 396 a. C., tempo austero della repubblica, Furio Camillo osservando i romani darsi al saccheggio non trattiene le lacrime, poi spende parole in cui sottolinea la necessità dell’azione. Il pianto e l’arte oratoria, che a Roma ha vissuto il massimo splendore, vanno di pari passo. Il politico è oratore per definizione: deve motivare e commuovere le masse e il pianto fa parte della strategia. “Il buon uso delle lacrime in politica” è il capitolo in cui l’autrice colleziona pianti teatrali, in cui i grandi del mondo antico somigliano ad attori e, perché no, a registi di ottime rappresentazioni. “A Roma il più eloquente è anche il più potente”, spiega l’autrice. Si dice che Nerone abbia deciso di uccidere Britannico dopo averlo sentito declamare i versi di Ennio, perché era troppo bravo: un rivale da eliminare. Leggenda o meno che sia, dà la misura di quanto importante fosse, anche in tempi di potere assoluto, il favore del popolo. Se il potere e il pianto sono rappresentazione, il culto dell’imperatore è anche funerario. Quando muore va in scena la sua divinizzazione. Di quest’usanza, che faceva sorridere i più smaliziati, ci ha lasciato un capolavoro di satira il grande Seneca con l’Apokolokýntosis, la divinizzazione di una zucca, ossia dell’imperatore Claudio, che non era particolarmente stimato. Per il resto, le lacrime erano cosa di famiglia, in cui la pietas e il culto degli antenati la facevano da padroni. Doveroso era piangere i propri morti, come accade anche ora. Solo che adesso le lacrime esibite non sono apprezzate: le si chiama volgarmente “sceneggiate”, perché il dolore è questione personale. Non a quei tempi. Una donna che non piangesse il marito era sospettata del peggio, se poi i famigli, ossia servi e schiavi, non si fossero disperati per il caro estinto sarebbe stata una tragedia. Non c’è da stupirsi: il teatro nella Roma antica era una questione di stato. 

 

Le lacrime di Roma
Sarah Rey
Einaudi, XII-164 pp., 24 euro

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