Quel povero Lautréamont fin troppo dimenticato

Rinaldo Censi

Ricordando “I canti di Maldoror”, scordati perché, forse, troppo violenti. Ma centocinquant'anni dopo restano ancora magnifici

Anniversari di nascita o morte, prime edizioni: tutto ormai concorre a smuovere un’industria culturale talmente bulimica, sovrappeso, da essere disposta a promuovere qualsiasi cosa possa vendere copie. Eppure, ci sembra che un nome sia rimasto ai margini, dimenticato. Possibile che in questo turbinio di date, libri, autori da far coincidere con il catalogo, nessuno si sia ricordato del Conte di Lautréamont? Maldoror compie centocinquant’anni. E’ infatti nella primavera del 1869 che Isidore Ducasse consegna all’editore Albert Lacroix i sei capitoli che compongono “I canti di Maldoror”, insieme a quattrocento franchi di anticipo per la stampa. La Librairie Internationale A. Lacroix, Verboeckhoven et Cie, attiva a Paris, Bruxelles, Leipzig, Livourne, è una casa editrice piuttosto prestigiosa. Ha già pubblicato Hugo, Proudhon, Zola. Pure Eugène Sue. Ducasse trova il suo pseudonimo prelevandolo proprio dal titolo di un suo romanzo, Latréaumont (1837), alterandolo grazie allo spostamento di due vocali. E sembra già di leggere in questo piccolo dislocamento tutta la strategia in atto nei Canti. Non sono forse l’esempio più furioso di un’opera colta in perpetuo spostamento temporale, spaziale, pronominale, perfino tipografico? La parabola del primo Canto ne è la prova. Viene pubblicato anonimo, nel 1868, firmato con tre asterischi, come la seconda edizione del 1869. La terza, quella conclusiva, la troviamo invece insieme al resto del libro, a firma Comte de Lautréamont. Ma nel tragitto alcune virgole nel frattempo hanno cambiato di posto, alterando, rendendo ambiguo, il senso di alcune frasi. Jean-Claude Lebensztejn ha messo in rilievo questo aspetto. Prendete la scena del fanciullo straziato nelle carni, che plana inquietante sul primo canto. Maldoror, carnefice assillato dal perdono, vuole consolare il fanciullo. La prima edizione del testo riporta: “Allora, ritiratoti da una parte, a mo’ di valanga ti catapulterai dalla camera accanto…”. Ma nella terza versione del 1869 possiamo leggere: “Allora, ritiratoti da una parte a mo’ di valanga, ti catapulterai dalla camera accanto”. Non è bizzarro? (l’edizione Rizzoli, curata da Idolina Landolfi, mantiene la lezione del 1868).

 

E’ vero, “I canti di Maldoror” contiene pagine furiose che hanno spinto l’editore a bloccare la pubblicazione del libro. Il giovane Falmer, dai capelli biondi, fatto vorticare, tenuto per i capelli fino a strapparglieli dalla calotta cranica; la giovane donna violata e straziata anche da un bulldog, i suoi organi interni eviscerati; i pederasti dall’“ano infundiboliforme”: non esiste libro che presenti un così spiccato gusto del sangue. E deve essere per questo che l’industria culturale si è scordata di Lautréamont. A molti certe pagine vanno ancora di traverso. Nondimeno, I “Canti di Maldoror” resta un testo magnifico: uno scontro di scene, parole e immagini. Uno dei più acuti estimatori di Lautréamont, Maurice Blanchot, vedeva la forza del libro nella “rottura con i fili del discorso, che non si cura di ordine o di unità e nemmeno della continuità logica”. Questo aspetto è stato molto amato dai surrealisti (il famoso “bello come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello”).

 

A volte, mentre leggiamo, si ha l’impressione di assistere alla proiezione di un film composito, che salta da una storia romantica, sanguinolenta a un documentario sui vampiri, o su strani animali esotici, ritrovati nelle pagine di Buffon o del Dottor Chenu. Ripetizioni, rotture di tono, metamorfosi, scivolamenti pronominali: chi scrive? Passiamo dalla prima persona, alla seconda, alla terza anche nell’arco di un’unica frase. Julia Kristeva segnala come nei Canti le alterazioni del soggetto somiglino a quelle di un serpente che cambia pelle. Una specie di animalizzazione dell’uomo attraversa le pagine. Come se Lautréamont fosse un Grandville satanico e perverso. Tutto il libro è per Blanchot “una specie di salto furibondo e prodigioso, un volo nel vuoto”. Quel volo che Isidore Ducasse descrive così mirabilmente, alludendo, rapinando testi di storia naturale (involare, verbo ormai entrato in disuso, rimanda sia a decollare che a rubare). Come quello del nibbio reale, che trascorre la vita per aria. “Non si riposa quasi mai e percorre ogni giorno spazi immensi; e questo gran movimento non è affatto un esercizio di caccia, né inseguimento di preda, e neppure perlustrazione; infatti esso non caccia, ma sembra che il volo sia il suo stato naturale, la sua situazione favorita”. Dislocata tra Montevideo a Tarbes, per finire poi a Parigi, la vita di Isidore Ducasse è stata assai breve. Muore a 24 anni, per cause ignote. Un compagno di classe, Paul Lespès, lo ricorda triste e silenzioso, i capelli lunghi, passare “ore intere coi gomiti appoggiati al banco, le mani sulla fronte e gli occhi fissi su un libro classico che non leggeva affatto; si vedeva che era immerso in qualche fantasticheria”. Forse stava già volando.

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