Lavoratori culturali, ovvero parcheggiatori abusivi

Matteo Marchesini

Figli di un mondo dove tutto è Scuola i nostri lavoratori culturali non sono più i mediatori odiati da Kierkegaard, e nemmeno i “quartari” di Bianciardi

Poco tempo fa, tornando da un convegno grossetano su Luciano Bianciardi, mi dicevo che avrei voluto recensire un libro che non esiste: un misto di “Lavoro culturale” e “Integrazione” sulla realtà di oggi. Un libro, intendo, che con ironica magrezza bianciardiana, senza derive pittoresche né prolissità sociologiche, sapesse descrivere i piani alti e i bassi, il ceto dirigente e il precariato di quel “lavoro”, le metamorfosi della sua industria e dei suoi media, la sua entropia economica e le sue ideologie. Nelle generazioni che ci dividono dal Boom, dopo una rapida ascesa, la middle class “culturale” è tornata a proletarizzarsi in forme inedite: e a inizio XXI secolo sembra frustrata proprio perché fatica a riavere lo status in cui Bianciardi vedeva viceversa un peccato da scontare.

 

Cosa non si sono dovuti inventare, gli aspiranti a un lavoro culturale che hanno ora dai cinquant’anni in giù. Fai l’associazione, scegli il progetto per il bando (lo Straniero, le Stragi, la Periferia…), tracci collegamenti da brivido fra temi, contesti e mezzi (“L’Inferno di Dante e l’inferno di Ustica – lettura scenica, docufiction e discussione nelle scuole”), vai a caccia di assessori, capi dipartimento, fondazioni. Proponi laboratori di scrittura creativa o critica, presenti il tuo gruppo come un’équipe di professionisti addestrati a educare i lettori di romanzi e poesie o gli spettatori di cinema e teatro. Provi a convincere gli altri e te stesso che la tua educazione è indispensabile; che i ragazzi non possono essere lasciati soli né davanti a un Dickens né davanti a una Telgemeier, né davanti a un Truffaut né davanti a uno Shakespeare fatto a pezzettini performativi; che non bastano gli insegnanti – guardati dall’alto in basso – né il libero dialogo, condito con un po’ di ragionevolezza e di passione, che si instaura tra tutti gli esseri umani interessati a un’arte. Diventi un manager della letteratura per ragazzi, dei fumetti o della scena, stabilendo un rapporto di dipendenza anche economica con le edizioni e le produzioni che porti in tour. Le ammannisci come se costituissero il fiore della Vera cultura criticamente scelta, mentre spesso appartengono a una nicchia in cui, nitide e rimpicciolite, si riflettono le retoriche del mainstream. Ti affanni a compensare la fumosità del mestiere travestendolo con le parole concrete del vecchio artigianato: metti in piedi “botteghe” di creatività, “officine” di scrittura. Parli dell’editing come fossi un meccanico che insegna a smontare un motore, un coach di pugilato o il sergente di “Full Metal Jacket” (caricando appena un ottimo esempio di Nicola Barilli: “Di un personaggio dovete sapere tutto, capito? Tutto! Anche quante volte si sgrulla il cazzo dopo che ha pisciato, non importa se poi quel pezzo lo tagliate. Sono stato chiaro?!”).

 

Se ti occupi di poesia, più la materia è vaga più aumenti la dose di assertività: correggi un verso fingendoti il regista di una troupe che prepara un film o un album musicale. “Abbiamo lavorato bene”, dici licenziando una plaquette col tono del calciatore o dell’allenatore a fine partita. Per fare tutto questo devi ridurre a problemi tecnici questioni che riguardano invece le visioni del mondo. E d’altra parte basterebbero due o tre domande socratiche ben assestate per dimostrare non solo che non sei all’altezza di simili questioni, ma pure che la presunta “tecnica” è quasi sempre un povero e arbitrario latinorum, anzi a essere precisi un holdenorum, poco importa se in una variante antiholdeniana. Del resto, anche se ciò accadesse il giorno dopo dovresti comunque tornare a credere di crederci, dato che ormai quell’habitus pseudoprofessionistico è la tua identità, e il gergo confuso pubblicizzato come “metodo” da opporre al “dilettantismo” l’unico linguaggio che conosci. A questo punto, chi esce più dall’equivoco? Il fenomeno è insopportabile e straziante. Figli di un mondo dove tutto è Scuola, cioè del rovescio distopico dell’utopia di Illich, i nostri lavoratori culturali non sono più i mediatori odiati da Kierkegaard, e nemmeno i “quartari” di Bianciardi. Somigliano piuttosto ai parcheggiatori abusivi: accompagnano con gesti esagerati da slapstick un’azione per compiere la quale non hai affatto bisogno del loro aiuto, che anzi ti inibisce o frastorna come un rimbombo; e appena hai finito tendono la mano per essere pagati. Ecco: più o meno questi, se non proprio questi, erano i miei pensieri dopo il convegno grossetano. E così mi sono accorto di avere già pronta la scaletta per il libro che mi piacerebbe veder scritto. Ora, chi ha voglia di riempire i capitoli? C’è qualche “bottega” disposta a farsi avanti?

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