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La classe compiaciuta

Federico Morganti

La recensione del libro di Tyler Cowen, Luiss University Press, 224 pp., 22 euro

E’difficile dubitare che il mondo in cui viviamo rappresenti sotto molti punti di vista un netto miglioramento rispetto al passato. Grazie alla divisione del lavoro, alla scienza, alla tecnologia, e nel quadro di istituzioni sempre migliori – almeno in buona parte del mondo – la cooperazione tra gli individui ha permesso di realizzare una società in cui si vive più a lungo, si è più istruiti, si gode di un maggiore benessere. “Progresso” è un termine filosoficamente impegnativo, ma in questo caso tutt’altro che mal riposto. Ma assumere che in futuro le cose si limiteranno a procedere sulla stessa traiettoria, come per inerzia, sarebbe una leggerezza. L’entusiasmo per il cammino svolto non deve rendere ciechi ai problemi, spesso inediti, dell’oggi.

 

Per Tyler Cowen – professore di Economia alla George Mason University – la società americana ha in qualche modo smesso di cercare soluzioni. Si è seduta, come si suol dire, sugli allori. La borghesia si è “imborghesita”. Ha smesso di vedere il cambiamento come un’opportunità e ha iniziato a vederlo come una minaccia. Lo vediamo nell’opposizione ai trattati commerciali, alla costruzione di impianti e infrastrutture, all’immigrazione. Il progresso ha reso la vita troppo comoda, e la comodità è un pungolo di scarsa efficacia.

 

Sono molti, e seri, i segnali di stasi: riguardano la politica, l’imprenditorialità, il modo in cui i cittadini abitano gli spazi urbani. Qualche esempio? Il primo è dato dalla segregazione: gli americani tendono ancora ad abitare in aree separate, distinte in base a reddito, razza, livello d’istruzione. Un problema che penalizza soprattutto neri e ispanici, per i quali è più raro vivere in quartieri con redditi differenziati o che presentano più alti livelli d’istruzione; il che significa accesso a opportunità di livello inferiore, e quindi minori possibilità di migliorare la propria condizione. Dagli anni Ottanta è calato il tasso di ricambio delle imprese, e nascono in media meno startup. Benché la prima possa sembrare una buona notizia, significa in realtà che le imprese in vita sono in media più vecchie e quindi meno propense al cambiamento. Ma significa anche un minore turnover per i lavoratori: quella frattura tra chi ha un buon posto di lavoro e chi invece cerca di farsi strada che in Italia conosciamo bene. E la lista prosegue.

 

Per strano che possa sembrare, il libro di Cowen, che pure una scossa vorrebbe darla, è privo di toni pessimistici. Il punto è che l’innovazione, nell’accezione ampia di Cowen, nasce da forze spontanee della società e dell’iniziativa individuale. Non c’è dunque teoria o dottrina che possa con certezza prevederne il ritorno. Difficile avverrà dalla politica, anch’essa arroccata su una polarizzazione tra partiti da cui sembra difficile uscire. Forse, suggerisce Cowen, servirà uno choc – che sia economico, geopolitico, ambientale – per scuotere dal suo torpore la classe compiaciuta.

 

LA CLASSE COMPIACIUTA
Tyler Cowen
Luiss University Press, 224 pp., 22 euro

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