recensioni foglianti

Neve nera

Piero Vietti

Paul Lynch
66thand2nd, 280 pp., 17 euro

"Diceva spesso di essere arrivato da lei come un angelo sceso dalle nuvole. Ti ho vista per la prima volta a centocinquanta metri da terra. Da quell’altezza, la vista non può far altro che acuirsi. I tuoi occhi luccicanti mi fissavano. Eri proprio tu quella che stavo aspettando”. Non si può non partire da queste righe, e dalle poche altre che seguono, per capire Neve nera, secondo capitolo della trilogia irlandese di Lynch che esce domani in Italia. Descrivono l’incontro tra Barnabas e Eskra, in America, sono un flashback improvviso incastonato in mezzo a pagine dure come pietra, un breve respiro fatto emergendo dall’acqua dopo una lunga apnea, appena prima di sprofondare ancora. Come in ogni attesa compiuta, da questo incontro nasce una promessa. Barnabas sposa Eskra, e dopo anni passati a lavorare sui grattacieli degli Stati Uniti torna nella terra in cui è nato e cresciuto, l’Irlanda. Comprano una fattoria, hanno campi e una stalla con molte bestie. Stanno bene, e il vecchio Matthew Peoples li aiuta con gli animali. Hanno anche un figlio, Billy, che va ancora a scuola ma inizia già a lavorare con il padre. Ma quella promessa è destinata a morire, bruciata nel fuoco che un giorno divora la stalla di Barnabas, portandosi via con la forza di un branco di demoni tutti i suoi animali e la vita di Matthew Peoples, entrato nell’edificio per provare a salvarli. “Coloro che in seguito parlarono di quella giornata, fecero fatica a descriverla”. Di quel fuoco sono piene le prime pagine del romanzo di Lynch, ma la sua fiamma non smette di bruciare fino all’ultima, straziante, riga di una storia in cui tutto è segnato da quella tragedia, e persino le cose fremono e attendono. Barnabas non sa come ricominciare dopo l’incendio, inizia a pensare che il fuoco sia stato appiccato da qualcuno di proposito, sospetta di tutti, si chiude in un silenzio cupo, smette di parlare a Eskra, si convince di potere sistemare ogni cosa. Smette di attendere, e inizia a perdere tutto.

 

C’è una ferita, nella realtà, un dolore misterioso e insopprimibile nelle cose, che la scrittura di Lynch riesce a rendere carne, ossa, fumo, luce, ombra e cattivo odore. Accanto a ogni nome mette un aggettivo, ma il suo è un esercizio necessario, mai superfluo. I campi, il cielo, gli animali, la casa, le macerie, le strade, sono personaggi vivi che a tratti aspirano a “una forma di benedizione o a un po’ di calore”. Squassato dal dolore, Barnabas dopo gli anni in America si trova di nuovo straniero, questa volta a casa sua. Avere lasciato quelle persone – il paese in cui si muovono i personaggi di Neve nera è nel mondo ma fuori dal mondo, la Seconda guerra mondiale agli sgoccioli un’eco quasi irreale – è stata per lui fortuna e condanna. Non ha più una stalla, né amici, né un posto che può chiamare casa, e la sua furia di rimettere le cose a posto, come se l’incendio non ci fosse mai stato, lo allontana dalla famiglia. Non c’è redenzione, nelle pagine di questo romanzo doloroso, né salvezza o benedizione per chi ha smesso di attendere. Eppure la promessa di quell’incontro aveva tutto per realizzarsi.

 

NEVE NERA
Paul Lynch
66thand2nd, 280 pp., 17 euro

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.