recensioni foglianti

New Deal

Roberto Persico

Kiran Klaus Patel, Einaudi, 536 pp., 34 euro

Si fa presto a dire New Deal: un ribaltamento del paradigma liberista, la politica del deficit spending, il modello americano che fa scuola nel mondo. A guardarla più da vicino, la realtà è più complessa. Tanto per cominciare, già l’Amministrazione Hoover “aveva creato una sezione Antitrust in seno al Dipartimento di giustizia, spinto i dirigenti di ferrovie e servizi pubblici ad ampliare i programmi di costruzione e manutenzione”, e avviato una politica protezionista che era “agli antipodi del laissez-faire”. Quanto alla nuova linea di FDR, essa era ben lontana dall’essere definita in partenza, tanto che “nell’interregno fra l’elezione e l’insediamento di Roosevelt non era ancora chiaro che cosa avrebbe portato il 1933: una continuità forte con gli anni di Hoover? Una rinascita economica in tandem con un rinnovamento della democrazia? Oppure addirittura una specie di dittatura?”. Il termine stesso con cui la politica rooseveltiana sarebbe passata alla storia, New Deal, si affermò per caso: usato di passaggio durante un comizio elettorale, fu colto al volo dalla stampa, e fu essa a farne l’emblema della svolta che l’America aspettava.

  
Se le promesse elettorali di Roosevelt erano un “miscuglio di vaghezza sul piano dei contenuti e di retorica esuberante”, una volta eletto il nuovo presidente si mise in azione con assoluta determinazione. Le iniziative freneticamente messe in campo nelle settimane successive furono però più il frutto di disparate intuizioni di diversi collaboratori della Casa Bianca che di un piano sistematico. Alcune ebbero notevole successo, come l’Agricultural adjustment administration, che assunse migliaia di esperti dalle facoltà di agraria e li mandò in giro per tutti gli States, favorendo la razionalizzazione dell’attività agricola, fino ad allora basata sulla naturale fertilità dei suoli piuttosto che su sistemi di coltivazione avanzati. Altre si conclusero con un fallimento, come la Resettlement administration, un tentativo di fondare nuove colonie agricole con un forte impianto collettivo, fortemente osteggiata con l’accusa di voler imitare i kolchoz sovietici, che la Corte Suprema finì per dichiarare incostituzionale. In tutto questo, la forza del paese fu quella di “saper imparare anche dai propri errori”.

  
Oltre all’attenta analisi della realtà americana, l’aspetto più interessante dello studio di Patel – docente di Storia europea e globale a Maastricht – è l’attenzione allo scenario mondiale, sia dal punto di vista del continuo confronto istituito già allora fra le iniziative americane e quelle degli altri stati, non esclusi Unione sovietica, Germania nazista e Italia fascista, sia sotto il profilo del ruolo internazionale degli Stati Uniti. Che proprio nel corso della crisi si resero conto di quanto le economie del mondo fossero interconnesse: se la prima reazione fu l’erezione di barriere economiche, al termine del ciclo Roosevelt dichiarò: “Abbiamo imparato che il nostro benessere dipende dal benessere di altri paesi lontani”. Una lezione tutt’altro che inattuale.

  

NEW DEAL
Kiran Klaus Patel
Einaudi, 536 pp., 34 euro

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