recensioni foglianti

Cavalli di razza

Giulia Medina

John Jeremiah Sullivan
66thand2nd, 250 pp., 18 euro

Per gli uomini lo sport è il modo più semplice per rimanere legati ai propri padri. Funziona come un cassetto dei ricordi che si apre e tira fuori infanzia e nostalgia, aiuta a sentirsi figli anche da adulti. E’ una tradizione arcaica che si rinnova, Freud e i suoi complessi non sono riusciti a scalfirla neanche un po’. In Cavalli di Razza John Jeremiah Sullivan racconta la biografia di suo padre e l’eredità spirituale che i genitori lasciano in sorte al sangue del proprio sangue.
Mike è un giornalista sportivo, suo figlio come atleta è una delusione. Da piccolo gioca a baseball, lo sport preferito di suo padre, ma non è bravo e non gli piace, poi sceglie il taekwondo, “ma non c’era nessuno con cui volevo combattere e avevo paura del dolore”. Suo padre lo osserva in silenzio. “Se stavo facendo tutto questo per compiacerlo, lui non diede mai a vedere che ci tenesse ai miei risultati. Non ricordo nessun silenzio risentito dopo una sconfitta, solo una sensazione di sollievo perché almeno era finita”. Poi John è cresciuto, le radici sono diventate più sottili. Era stato doloroso, non poteva farci niente. Una notte, John è seduto al capezzale di suo padre in fin di vita. Vuole che gli racconti una storia, ciò che si ricorda dopo tutti quegli anni di sport, Muhammad Ali, Michael Jordan e John McEnroe. Sa che le occasioni si stanno esaurendo. Mike inaspettatamente e inspiegabilmente gli parla del Kentucky Derby, la corsa di cavalli purosangue. John non conosce niente di quel mondo, ma la morte di suo padre lo spinge a esplorare un mondo di cui lui non sa niente. Cavalli di razza, tradotto in italiano da Gabriella Tonoli, non è solo la storia di un padre (“Che farsa, che villania cercare di raccontare la storia di una vita”), è anche la storia del rapporto tra uomini e cavalli, civiltà e natura. “Ci capita ancora di vedere nella natura qualcosa di spaventoso o a noi superiore? La Natura non ci spaventa più: a spaventare è l’idea di aver trionfato su di essa, e il significato a lungo termine di questo trionfo – il giorno in cui, troppo tardi, capiremo che noi eravamo la natura, e che il nostro trionfo è stato un suicidio. Ecco che cosa simboleggia il cavallo selvaggio: lo strano potere di chi è sia indifeso sia indispensabile”. La relazione tra uomini e cavalli è vecchia quanto il mondo, nessuno è ancora riuscito a capire se l’animale sia simbolo di pace o di guerra. Nei secoli dei secoli i purosangue sono serviti ad avallare teorie eugenetiche e della razza, sono stati indispensabili durante le guerre, e poi Guernica e le opere di Chauvet. “Sono obbedienti: è questo il loro problema”. Accanto alle leggende e alle tradizioni di cavalieri e di fantini, Sullivan racconta com’è stato vivere insieme a suo padre, un uomo che sognava la poesia e per sopravvivere ha cominciato a scrivere di sport. In una parete del suo studio c’era scritto un verso di Logue: “Non essere troppo duro, perché la vita è breve e all’uomo non viene dato niente”. Mike era un uomo passivo, dipendente dalle sigarette, ironico ma con una sfumatura di tristezza sul viso che non sarebbe andata via: le delusioni e le infelicità non lo abbandonarono mai. “I figli spesso vagano come sonnambuli sulle sconfitte dei padri”.

 

CAVALLI DI RAZZA
John Jeremiah Sullivan
66thand2nd, 250 pp., 18 euro

 

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