Il delitto della letteratura trattata come ornamento

Matteo Marchesini

Un libro di Gianluigi Simonetti prova a mappare un universo in via di raffreddamento

Quando una disciplina, una tradizione o un’arte perdono peso nella vita collettiva, capita spesso che vengano utilizzate come alibi, decorazioni e pretesti. E’ questo, ormai da decenni, il caso della letteratura. Dei suoi prodotti si parla di solito per ragioni estrinseche: appetibilità mediatica dei temi, eccentricità dell’autore, involucri formali più simili a un logo che a uno stile. Ma di recente si è verificata una svolta ulteriore. Anche la letteratura divenuta industria, quella del romanzo, fatica a sfornare bestseller legati non si dice alla figura novecentesca dello Scrittore, ma almeno alla sua parodia.

 

Dopo “Il pubblico della poesia” siamo al “Pubblico della narrativa”, più largo ma sempre composto in gran parte da chi scrive, corregge, organizza eventi; e un po’ oltre l’indotto, dove la luce arriva fioca, dalla platea che chiede ai libri storie ma soprattutto blasoni sociali. Tutt’intorno, più lontano ancora, questo piccolo sistema solare sfuma nelle galassie dello storytelling e nella radiazione di fondo di una generica scrittura creativa. In sintesi, “la letteratura, che nella modernità era lingua speciale, si fa oggi comunicazione estetica ordinaria, il modo più elementare” per affermare se stessi. Sono parole di Gianluigi Simonetti, che in “La letteratura circostante”, edito dal Mulino, prova a mappare un universo in via di raffreddamento.

 

Senza innamorarsi di suggestioni sociologiche o metafisiche fatte passare surrettiziamente per critiche, Simonetti avanza con equilibrio tra campionature e categorie empiriche, induttive, interpretando la narrativa, la poesia e la società in cui nascono, ma evitando di confondere i piani. Così giustifica le corpose analisi dedicate alla paraletteratura (da Moccia ai romanzi autobiografici dei presentatori) con la constatazione che per quantità, e per osmosi con altre creature più equivoche, modifica il quadro complessivo; mentre il vasto midcult promosso ad arte suprema, con i suoi scrittori che fingono di mostrare contrasti laceranti in realtà già risolti in partenza, e con i suoi personaggi che si vogliono insieme scafati e fragili, pronti a minimizzare ma anche ad attraversare le prove struggenti della vita, toglie ossigeno alle opere davvero inconciliate, paragonabili ai capolavori moderni. Simonetti è ora troppo tranchant e ora troppo morbido. A volte emette giudizi inappellabili in due righe; a volte invece, davanti a tendenze effimere ma graziate da una storicizzazione precoce, sopravvaluta i loro promotori, tipi svegli che sanno muoversi agilmente nella bolla crossmediale dove l’opera resiste “come mezzo, non come fine”.

 

Comunque sia, non sono poche le pagine da meditare: ad esempio quelle sulla semi-fiction e sulle tecniche di genere come fughe speculari dalle responsabilità del romanzo; quelle sull’impegno come esotismo; o quelle in cui si rileva che se la poesia torna a cancellare l’io, la narrativa insiste sul personaggio-autore. Simonetti inizia osservando che dagli anni 90 parecchi narratori (tondelliani, cannibali, postmodernisti, neo-neorealisti…) gareggiano in rapidità con i media più potenti, mimando lo zapping, il videogame e poi la rete. Dubbiosamente cita da “Branchie”: “Svolto per un vicoletto e comincio a correre. Mi intrufolo in una mandria di vacche che sgranocchiano vecchi giornali. Mi faccio spazio menando pugni e calci”; e ancora: “Usciamo rombando dalle stradine del centro facendo diversi morti”. Lasciamo perdere la qualità e fissiamo il cronometro. Al confronto, la prosa del Savinio anni 30 viaggia alla velocità della luce. Ammaniti procede a scatti forzati, giustappone goffamente i fotogrammi: le sue frasi, che si vorrebbero fulminanti e “parlate”, sembrano le didascalie gergalmente letterarie di un film raccontato a un cieco. Così accade quando si trasferisce immediatamente una tecnica efficace in un determinato mezzo all’interno di un altro contesto formale in cui risulta incongrua, cioè kitsch. Ma allora dov’è la velocità? Veloci, credo, non sono Ammaniti e i suoi colleghi: veloce è oggi la fruizione di storie scritte da cui ci si aspettano solo i colpi di scena concessi in un clima, in un ritmo e in un immaginario già fissati, che alludono alle sceneggiature e ai loro sottoprodotti. Quindi le pagine si sfogliano con un’occhiata come certi fumetti, senza bisogno di “leggerle”. Intanto, però, si può dire di aver divorato un romanzo. La letteratura come ornamento: ecco un delitto che le nuoce assai più dell’indifferenza. Ed ecco un campo fertile per le indagini antropologiche à la page: come stanno cambiando i nostri modi di leggere e vedere? E come cambia il posto che tutto ciò occupa nella nostra vita?

Di più su questi argomenti: