recensioni foglianti

Grande madre acqua

Francesca Pellas

Zivko Čingo
CasaSirio, 192 pp., 15 euro

Doversi impegnare a crescere sapendo di non appartenere a nessuno: essere piccoli, essere soli. Orfani, e in un paese oppresso da una dittatura. Lem e Keïten, i protagonisti di Grande madre acqua di Zivko Čingo (CasaSirio, traduzione di Carolina Crespi e Jessica Puliero, prefazione bellissima di Marcoandrea Spinelli), vivono così: sono “due cani raccattati per strada”, rinchiusi in un orfanotrofio che è un ex manicomio circondato da un muro altissimo. Il mondo di fuori è la Yugoslavia di Tito, e loro si trovano in quella frangia di terra che cinquant’anni più tardi diventerà la Macedonia, uno stato che la Bulgaria considera “Bulgaria dell’ovest” e i serbi una “Serbia del sud”, mentre la Grecia neanche ne riconosce l’esistenza. Una terra in cui abitano minoranze etniche dai nomi magici: gli arumeni, i valacchi, i gorani delle montagne, i torbeshi. Qui alla domanda “Di dove sei?” può seguire una risposta in più parti, perché l’identità è un fatto complicato, come ovunque nei Balcani. E lo è ancora di più per un bambino solo: se “nella società occidentale essere orfani è un trauma personale, in quella balcanica è un trauma pubblico, sociale e culturale”, spiega Spinelli.    

  

Lem e Keïten in quest’esistenza fatta di solitudine, paura e angherie hanno un’unica consolazione: la Grande madre acqua, il lago al di là del muro. Lem impara a sentirla grazie a Keïten (“Da dove veniva la forza di Keïten? Le innumerevoli notti senza sonno e le giornate difficili mi suggerivano un’unica risposta: veniva dalla sua bontà”), e quest’amicizia diventa il loro unico potere, insieme alla capacità di immaginare: immaginare il futuro, la vita, e quell’acqua che parla e li chiama. Chiunque da bambino abbia avuto paura almeno una volta (anche per cose decisamente meno terribili) lo sa: la fantasia è un’arma di salvezza invincibile. Persino la notte più buia può essere bucata da un lumino tenace.

  

C’è un’espressione tipica della lingua inglese capace di evocare la traiettoria che la caparbietà di una persona può compiere per realizzare qualcosa d’importante: “Go to great lengths”, traducibile barbaramente con “andare a grandi lunghezze”, o “andare fino a grandi distanze”. Fa pensare a un gigante buono che indossa gli stivali delle sette leghe e corre per portare a termine una missione al di là delle montagne. Non c’è frase che possa spiegare meglio quello che ha fatto il direttore editoriale di CasaSirio Martino Ferrario – un trentenne matto con un cuore di grandezza rara – per ottenere i diritti di questo libro e poterlo pubblicare: è stato un piccolo miracolo.

  

A Zivko Čingo Martino sarebbe piaciuto. Lo scrittore macedone è morto nel 1987 sul lago di Ocrida, in una città (Ocrida, appunto) a pochi chilometri da quella in cui era nato (Velgosti). Il lago di Ocrida, per due terzi macedone e per un terzo albanese, è uno dei più grandi della penisola balcanica, e si dice sia uno tra i più antichi della Terra. Per Čingo la Grande madre acqua non era un’invenzione: era lì all’inizio, è stata lì alla fine, c’è stata sempre.

 

GRANDE MADRE ACQUA
Zivko Čingo
CasaSirio, 192 pp., 15 euro

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