Alberto Bertoni

Il poeta vero nel Novecento che non finisce mai

Matteo Marchesini

Sembra che nella letteratura italiana del Duemila tocchi a due modenesi, Walter Siti (in prosa) e Alberto Bertoni (in versi)

Mentre la tecnologia e la società contemporanee vivono d’imprevisti e di accelerazioni sempre più spinte, nell’arte continuano a ricombinarsi tra loro le proposte di un Novecento che culturalmente non sembra affatto un secolo breve, ma anzi un secolo che non finisce mai. Prendiamo il continente semisommerso della lirica. Tra le tendenze prevalenti troviamo ancora una scrittura che insiste sulla perimetrazione del mondo e dell’io, in chiave gnomico-aforistica o con stile neutro-alienato da école du regard, o magari mediando le due poetiche sul terreno di una estenuata linea lombarda. Troviamo chi frulla sentimenti eterni e oggetti effimeri nei contenitori di forme chiuse iperparodiche, con manierismo tragicomico o nichilista. E soprattutto ritroviamo la koinè “centrista” nata negli anni 60 dall’incontro tra eredità ermetiche e novità prosastiche: un gergo in cui i lacerti di cronaca privata vengono sublimati da un’oratoria luziana, da un’allusività alla Montale, o dalla recita di una saggezza crepuscolare che non spegne ma autorizza il pathos. I risultati di questa koinè sono spesso anonimi; ogni tanto, però, sul loro lirismo uniforme spiccano i versi di un poeta vero, un poeta per il quale la tradizione del Novecento più autorevole è indistinguibile dall’espressione immediata – dalla vita.

 

E’ il caso di Alberto Bertoni, di cui Aragno stampa ora le “Poesie 1980-2014”. Se come studioso Bertoni resta un po’ anodino, come lirico è crudo ed esistenzialmente oltranzista. Le due nature s’indovinano persino nella sua presenza fisica. Quando parlo con quest’uomo insieme corpulento e atletico, col naso e gli occhi di Walter Matthau, ho l’impressione che la sua aria conviviale e il suo abito di cordialità apparentemente senza strappi somiglino a una lastra sottile che da un momento all’altro può incrinarsi, lasciando esplodere un’iracondia e un dolore immedicabili.

 

Nelle sue poesie in lingua e in dialetto spadroneggiano i magoni, le rabbie, la voracità erotica e culinaria di un animale padano paonazzo e guccinianamente guascone, immerso in una geografia dove stadi, trattorie e ippodromi prevalgono quasi sempre sulle aule. In Bertoni, sotto una spolverata di spezie montaliane, le cabalette e i contrappunti di Giudici s’incrociano con le impuntature ritmiche e tonali che in Sereni segnano al tempo stesso il tentativo di liberarsi dagli spettri del rimorso e l’impazienza di divorare sportivamente o sentimentalmente la vita. Ma malgrado questi tratti così “storici”, in pochi altri poeti recenti (forse solo nell’assai più etereo Raboni) s’impongono in maniera così disarmata e sanguinante i temi più atemporali della lirica, Amore e Morte:Non ho insetti in cui rappresentarti / mio angelo con i capelli neri / tu che detesti tutti gli animali / e i soprammobili in genere / Ma se sfioro dico sfioro un incidente / in nebbia periferica di ghiaccio / non posso fare a meno di pensarti / che al videogame preferito di tuo figlio / giochi la mia salvezza e la vinci / con l’improbabile certezza / dei mille tuoi esami quotidiani / sui quali un tempo scommettevo baci”… Più avanti, dove la giovinezza sfuma e i testi toccano “le cose dopo”, i motivi di eros e dissoluzione s’intrecciano in testi simili a scongiuri, a preghiere ridotte in poltiglia, a nenie atroci o ai referti straziati di chi non può abbassare le palpebre davanti allo sfacelo. Qui la troppo lunga adolescenza goliardica va a sbattere contro la decomposizione psicofisica dei genitori, generando un canzoniere che non si dimentica: “… Temo sia questa / la mia sola religione / questo obbligo filiale di toccare / gli escrementi, in lei / raccogliere gli stracci / di ogni essere Madre // E il rigo implume del suo ventre / l’insulto dell’utero macchiato / quel taglio da cui sono sbucato // dicono che il Senso generale / è una pura questione di olfatto / e di tatto alla bocca dello stomaco / il contatto con lo sporco / che s’incide nel volto / d’ogni grazia vuoto // e frutto del suo seno”.

 

Sembra che nella letteratura italiana del Duemila tocchi a due modenesi, Walter Siti (in prosa) e Alberto Bertoni (in versi), raccontare con la più analitica spietatezza l’agonia di padri e madri, sullo sfondo di contesti terribilmente dozzinali in cui quasi tutti siamo condannati a riconoscerci. Montaliano devoto, Bertoni non vive però al cinque per cento: quest’orfano sessantenne, questo tiratardi dal contegno ridanciano e minacciosamente disperato, dilapida il suo patrimonio di professore per scrivere una delle poesie più vitalmente coraggiose e impudiche che oggi ci sia dato leggere.

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