recensioni foglianti

Città sola

Gaia Montanaro

Olivia Laing
il Saggiatore, 292 pp., 24 euro

“Ognuno può padroneggiare un dolore, tranne chi l’ha”, scriveva Shakespeare in Molto rumore per nulla. Perché il dolore, un po’ come la solitudine, ci rende vulnerabili, più bisognosi. Ci rende attenti a quello che ci circonda perché ci ricorda che siamo in ascolto, in attesa che qualcosa possa accadere. Olivia Laing firma un saggio che prova a raccontare, con un misto di tenerezza e precisione chirurgica, la condizione della solitudine. Lo fa dalla prospettiva del rapporto tra solitudine e arte partendo dall’esperienza di quattro grandi personalità del secolo scorso – Edward Hopper, Andy Warhol, David Wojnarowicz e Henry Darger – provando a indagare come l’arte possa essere una scappatoia dal sentirsi soli, un’occasione per esprimere il proprio sé più vero dando un nome alle proprie ferite. Il palcoscenico di questa arte è la città di New York – la città sola – emblema di una certa solitudine collettiva e paradigma di un modo di concepire se stessi. Partendo da un’esperienza autobiografica – il senso di solitudine dopo un amore finito che aveva portato la Laing a trasferirsi in America – l’autrice rilegge l’opera di alcuni grandi artisti muovendo dall’idea che la solitudine possa condurre a un’esperienza della realtà altrimenti irraggiungibile. Solitudine che diventa chiave interpretativa dell’opera di Hopper che nei Nottambuli mette in scena figure desolate e chiuse nel loro mondo interiore così come dell’estro creativo di Warhol e di Valerie Solanas – la scrittrice femminista che gli sparò. E ancora: la fotografa Nan Goldin e i suoi ritratti di amici consumati dalla droga e dai vizi, il pittore Henry Darger isolato da una vita ordinaria e ossessionato dal ritrarre bambini torturati, David Wojnarowicz e la rappresentazione della piaga dell’Aids come motivo di isolamento sociale. Sì, perché per Laing la solitudine è anche “politica” in quanto legata a una certa parcellizzazione sociale, a dei rituali consolidati che escludono chi per elezione non vi può prendere parte. Ma, di contro, la solitudine diventa per ossimoro un sentimento collettivo. E’ una città in cui, prima o poi, tutti finiamo per abitare. Ed ecco quindi che la solitudine unisce, crea compartecipazione emotiva, paradossale occasione di uscita dall’isolamento. Non è originale, non è esclusiva come può sembrare. La solitudine è una condizione decisamente comune. Tutto dipende da come la si abita, come si sceglie di viverla e, in qualche modo, di farla fruttare. Che sia scelta o subìta, alleviata o esasperata, taciuta o gridata, tocca a tutti prima o poi farci i conti. “Il dolore della solitudine è quello dell’occultamento, della percezione di dover nascondere la propria vulnerabilità”. E’ un dolore che rende esposti, che disvela chi siamo e cosa cerchiamo veramente. Nella copertina del romanzo della Laing troviamo un bell’autoritratto di Erik Olson. Vi è dipinto un volto, formato dall’unione di tante singole unità geometriche che, nel loro raccordarsi, diventano un unicum. Sintesi perfetta di ciò che si è tentato di raccontare.

 

CITTA' SOLA
Olivia Laing
il Saggiatore, 292 pp., 24 euro

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