Il progresso vincerà grazie alle lingue morte

Giulia Ciarapica

L'enorme equivoco per cui si attribuisce allo studio umanistico una valenza non scientifica

A inizio anno abbiamo assistito a una polemica che si è protratta fino a oggi, e che investe il mondo della scuola e dell’istruzione. Tutto inizia con il nuovo bando pubblicato dal ministero dell’Università e ricerca per il Prin, finanziamento dei Progetti universitari di interesse nazionale. La disputa nasce dall’obbligatorietà di presentare tali progetti in lingua inglese, e solo facoltativamente in italiano, tanto che il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini ha scritto un contributo dal titolo piuttosto significativo, “Il Miur dà un calcio all’italiano”. Nulla di nuovo sotto il sole giacché, come ricorda il professor Lorenzo Tomasin nel suo illuminante volume “L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia” (Carocci), nel 2012 ci fu un ampio dibattimento che “riguardava in apparenza l’ingegneria e l’italiano” ma che forse non si limitava solo a questo campo. L’allora rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone annunciava che nella sua università i corsi di magistrale e dottorato si sarebbero svolti solo in inglese.

 

Al di là del necessario studio dell’inglese, che ci mette in comunicazione con il mondo, è pur vero che siamo fatalmente ipnotizzati da una lingua che ci attrae tanto quanto il termine “digitalizzazione”. “L’idea di insegnare in inglese” scrive Tomasin, “derivava in primo luogo dal tentativo di attrarre finanziamenti”, proprio come accade con le proposte di digitalizzazione dei volumi nelle biblioteche. La conservazione e messa in sicurezza di un certo patrimonio culturale e librario che passi attraverso la digitalizzazione non assicura un’inattaccabilità nel tempo, ma è il mezzo più allettante per ottenere finanziamenti pubblici. Perché tutto questo?

 

Siamo sempre più convinti che ciò che ruota attorno alle università umanistiche sia non solo qualcosa di sorpassato, ma che sia addirittura inutile, laddove il termine “utilità” assuma il significato di “utile per il mondo concreto del lavoro, che non generi disoccupazione”. Quando ne parlai con il professor Francesco Sabatini, membro onorario dell’Accademia della Crusca, me lo disse chiaro e tondo: perfino alcuni degli studenti che si iscrivono alle facoltà umanistiche lo fanno pensando di trovare un “parcheggio” – magari non hanno passato il test di Medicina. Tutto nasce dall’enorme equivoco per cui si attribuisce allo studio umanistico una valenza non scientifica, mettendo in risalto una componente “passionale” o sentimentale che di certo c’è, ma che non è in alcun modo unica e predominante. Basti pensare alla glottologia, alla linguistica generale, allo studio delle cosiddette “lingue morte” che ci sembrano tanto lontane e invece sono così vicine da fornirci il vocabolario attuale, italiano e anche inglese, giacché il novanta per cento della lingua scientifica in inglese, tedesco, italiano, spagnolo è fatta di latino e di greco.

 

Lungi dal demonizzare i nuovi mezzi di comunicazione e digitalizzazione, così come l’utilizzo della lingua inglese, è anche vero che lo sviluppo delle Digital Humanities è stato pensato soprattutto per salvare capra e cavoli: tanto le nostre amate (con un filo di ironia) Lettere, quanto la più produttiva (senza dubbio) Informatica. Peccato che, come spiega Tomasin, si vada incontro al rischio sempre più frequente di rendere il sapere estremamente superficiale: non solo mancherebbe l’approfondimento scientifico e umanistico, va da sé, ma rischieremmo di trattenere a un livello piuttosto dilettantesco gli strumenti tecnologici a disposizione.

 

Grazie ai miei laboratori di book blogging in giro per l’Italia, ho avuto la fortuna di lavorare con i ragazzi delle scuole medie di Osimo (Kreuger e San Biagio) e di vedere applicato un metodo di insegnamento che riesce a coniugare il mondo analogico con quello digitale; tutti gli allievi dispongono di iPad e supporti elettronici per la scrittura e la lettura (che sono digitali ma in fondo riproducono libri e quaderni cartacei), le lezioni di storia, italiano e geografia sono arricchite da video e ricerche online, insomma tutto è finalizzato ad aiutare lo studente nel processo di acquisizione delle basi “analogiche” (la storia, ad esempio) attraverso il “digitale”. Solo muovendo in questa direzione, e non tentando di sostituire un campo all’altro, raggiungeremo buoni livelli di specializzazione. Più il progresso avanza, lanciandoci una sfida ad alta velocità, più dobbiamo rallentare e capire, analizzare cosa ci sta succedendo. Studiando, analogicamente e digitalmente.

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