recensioni foglianti

La mite

Matteo Matzuzzi

Fëdor Dostoevskij
Adelphi, 112 pp., 11 euro

Pare di sentire il cuore di questo quarantunenne titolare di un banco di pegni sussultare a più non posso dentro la gabbia toracica. Il suo respiro affannato, il sudore che gli imperla la fronte. Va avanti e indietro, dalla finestra al tavolo dove è sistemata la bara con la sua pallida giovane moglie. Distesa col volto orientato in direzione dell’angolo delle icone, naturalmente. Alla russa, come si conviene. Lei lì, ormai cieca e sorda. Lui che con lo sguardo mira alla finestra dove poche ore prima lei aveva deciso di farla finita, gettandosi nel vuoto. Lei è la Mite, la ragazza che andò in sposa a questo ex capitano dell’esercito russo cacciato per viltà qualche tempo prima. Si conoscono un po’ per caso, visto che lei andava sovente nel suo banco, avvolta da un misterioso silenzio. Lui vede subito l’occasione: redimersi. Cancellare il passato, prendere moglie con la quale magari fare dei figli. Iniziare una nuova vita: “Ci pensai un po’ e lì per lì decisi il mio destino. Senza chiedere perdono agli uomini, decisi di aprire il banco dei pegni: un po’ di soldi, poi una casa, e infine una vita nuova, lontano dai ricordi del passato”. Ma il protagonista di questo breve romanzo dostoevskijano appunto non si dà requie, “il mio oscuro passato e la reputazione macchiata per sempre mi angustiavano ogni ora, ogni minuto”. Deve vendicarsi della società che gli ha tolto i gradi militari e l’ha confinato in una casa di due stanze, emarginato. La Mite – che ricorre sovente in Dostoevskij, in Delitto e castigo ce ne sono addirittura due, la sorella dell’usuraia e la povera Sonja che seguirà Raskol’nikov fino in Siberia – è la chiave per farlo. Ma ben presto finirà per torturarla con i suoi “silenzi eloquenti”, avvolgendola sempre più tra le spire della propria condizione da uomo del Sottosuolo non lasciandola più respirare. E allora ecco il delirio dell’uomo davanti al cadavere della moglie. Frasi intervallate da ripetizioni e contraddizioni, il ritmo incalzante che rende alla perfezione lo stato della sua alterazione, della sua rabbia. Si chiede di continuo perché sia morta, prima riconoscendo che è stato lui a rendere inevitabile quel tragico esito e poi tornando a porsi la domanda, quasi volesse allontanare la banalità della risposta. “Ho tradotto senza limare, ammorbidire, ingentilire il soliloquio – tutto esitazioni, ripetizioni, contraddizioni, balbettii, ripensamenti – dell’uomo rimasto solo davanti al cadavere della moglie”, scrive nella Nota al volume Serena Vitale, che ne ha curato l’edizione. Tolstoj diceva che “nonostante l’orrenda scrittura, in Dostoevskij si trovano pagine straordinarie”, mentre Nabokov spiegava che “la fastidiosa ripetizione di parole e frasi, l’intonazione di chi è posseduto da un’idea ossessiva, l’assoluta banalità di ogni parola e la magniloquenza a buon mercato caratterizzano lo stile di Dostoevskij”. Vitale lo annota, aggiungendo che “per certo l’ossessivo ripetersi dell’apparentemente innocuo monosillabo contribuisce ad accelerare il tempo già spasmodico della narrazione, a tenere il lettore in un quasi doloroso stato d’allarme”.

 

LA MITE
Fëdor Dostoevskij
Adelphi, 112 pp., 11 euro

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.