La sua prosa ricorda il Pampaloni di “Fedele alle amicizie”: fluida, duttile, non sopraffà mai gli autori e le persone di cui tratta

La pietas manzoniana di Mariolina Bertini

Matteo Marchesini

Uno dei maggiori studiosi di Proust e di Balzac, ha incarnato un’università dal volto umano

Il 4 maggio, all’università di Parma, ho presentato con altri un ponderoso volume collettivo di studi, “Libri e lettori”, stampato dalla raffinata Nuova Editrice Berti e dedicato alla francesista Mariolina Bertini per il suo pensionamento. Non è però di questo volume che voglio parlare qui, ma proprio di Mariolina. E per parlarne devo citare questo giornale, perché se l’ho conosciuta dipende dal fatto che nel 2013 mi cercò dopo aver letto i miei corsivi foglianti. Siamo diventati amici quasi subito, o meglio lei mi ha quasi subito adottato. Da allora, ogni tanto, al risveglio trovo un suo messaggio del tipo: “Che dice oggi il Fogliaccio? Lo compro? C’è un Bandinelli, un Alfonso, un’Annalena da non perdere? E tu orso, cosa scrivi? Ieri ho visto Langone in tabarro: povera selvaggina!”.

 

Mariolina è la nostra maggiore studiosa di Proust e di Balzac, commentati per decenni nelle aule emiliane ma scoperti nel suo Piemonte e nella sua Champoluc, dove già Debenedetti si trovò per la prima volta a tu per tu con Swann. Si fatica a immaginare un’incarnazione più tipica della leggendaria torinesità colta: forse nemmeno i Ginzburg sono così Ginzburg come la Bertini, che tra zii Pintor, zii Dionisotti e relativi aneddoti sembra essere uscita dalle pagine di “Lessico famigliare”. Ora però, oltre a viverlo, il suo lessico lo ha scritto, montandolo in un delizioso librino autobiografico che potrebbe intitolarsi “Torino 1950”, e che spero non resti a lungo tra gli inediti. La sua prosa ricorda il Pampaloni di “Fedele alle amicizie”: fluida, duttile, non sopraffà mai gli autori e le persone di cui tratta, ma li avvolge con comprensiva intelligenza. Non ho conosciuto Mariolina da giovane; però riesco a immaginarla, e la so capace di capricci e stoccate micidiali: così questa sua pietas manzoniana mi commuove come una scelta malinconicamente – manzonianamente – meditata e sofferta. La mia amica distribuisce l’attenzione e i suggerimenti con il tatto e l’apertura curiosa del suo amato Maigret – di cui in “Libri e lettori” si occupa Domenico Scarpa – e a questo atteggiamento ne unisce uno altrettanto religioso, l’umorismo ammirato in Chesterton – nel volume Berti ne scrive Enrica Villari – e ritrovato in Cesare Cases. E’ un umorismo, per stare ai polizieschi, condito da malizie affettuose alla Miss Marple.

 

Quando la incalzo con le mie impazienze polemiche, ad esempio, anziché prendermi di petto lei snocciola una storiella: “Questo mi ricorda una mia cugina che…”. All’ethos bertiniano non è estranea la gioia legata alle primissime letture, pezzi di un Ottocento ridotto a balocco gozzaniano o portato all’assurdo dalle strofe del Corriere dei piccoli, che con i fumetti, i gialli e i romanzi rosa costituiscono per Mariolina una calda coperta di Linus nel gelo sadico e orrorifico del secolo XX. Del resto non è proprio col bello stile degli scrittori un po’ antiquati – non è con le meravigliose storie infantili e con le opere, direbbe Benjamin, meno esteticamente intenzionate o trascurabili – che si costruisce una riserva di felicità quel Marcel deciso a scendere negli inferni del neonato Novecento? E i prodotti neri, fumettistici o melodrammatici di cattivo gusto, assaporati dalla francesista con perfetto buon gusto torinese, non sono gli ingredienti più saporiti dei banchetti balzachiani? A questo punto non stupirà che a Parma abbiano un gran magone.

La Bertini ha incarnato un’università dal volto umano: tra i clamori effimeri delle mode teoriche ha sempre evitato quella che con frase vichiana chiama la “boria dei dotti”, cioè di coloro che guardano la cultura del passato come uno scalatore giunto in cima guarda compassionevolmente chi arranca sulle rocce in basso. Sa che negli studi umanistici, cioè nella vita, nulla è sicuro e nulla è superato. A vent’anni nutriva un amore cocciuto per quel Croce che intorno a lei quasi tutti consideravano un cane morto; e adesso nel librino annota che le piacerebbe “poter viaggiare a ritroso nel tempo, e mostrare alla Mariolina avvilita del 1966 gli eleganti volumi di Adelphi e di Bibliopolis che oggi accolgono le opere” del filosofo. Chi leggerà queste memorie incontrerà una scrittrice di rara eleganza, parente stretta di quella già rivelatasi nei saggi, e in particolare una ritrattista irresistibile. Una volta parlavamo di Adorno, mia antica ossessione. “E’ buffo”, mi ha detto con un tono più torinese che mai, “è proprio buffo che tutte quelle vertigini dialettiche vengano da un tipo che ha la faccia da geometra di Pescara”.

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