Foto di Roco Julie via Flickr

Il gran ballo smascherato degli scrittori che si raccontano

Marco Archetti

La passione non è socievole e la vocazione non è innocua: sono queste le consapevolezze che vorticano a ogni pagina della dispiegata danza che è “La scrittura o la vita” di Annalena Benini

La passione non è socievole e la vocazione non è innocua: sono queste le consapevolezze che vorticano a ogni pagina della dispiegata danza che è “La scrittura o la vita” di Annalena Benini, macchina ariosa, gran divanone di carta e parole, libro che indaga senza presunzione di rinvenimento, libro senza tesi che sembrerebbe organizzato per antitesi – si tratta di dieci conversazioni con altrettanti scrittori italiani – ma che per fortuna è altro, soprattutto perché dagli interlocutori Benini sa chi e cosa vuole: interlocutori, cioè autoritratti emendati dal fronzolo. “Da loro voglio capire come si cammina col fuoco dentro, voglio riconoscere l’unicità della vocazione, il momento in cui sono riusciti a dire: io sono uno scrittore”. Parte dunque all’arrembaggio del nucleo incandescente, questo libro che è una convocazione a una festa, un girotondo delle verità, un gran ballo smascherato in cui ogni scrittore è obbligato a interrogarsi. Alla domanda: “Questi Achille raggiungono la tartaruga?”, l’unica risposta possibile sarà “non lo so, non me ne importa”, perché non è lì ma tutto in questo autodefinirsi nel calco degli intenti, il senso di un libro che vuole raccontare le vie che sì, portano a se stessi, ma soprattutto quelle che da se stessi allontanano (“il viaggio in cui si può morire”, dice Valeria Parrella sintetizzando in modo eccellente il fascino dell’opera di Conrad). Per Domenico Starnone il viaggio è circumnavigazione: “Tutti abbiamo una gioia-madre e una sofferenza-madre da raccontare, e ci giriamo intorno con storie diverse”. E questo sono le dieci conversazioni: dieci scrittori che ricorrono al nocciolo di sé per spiegare tutto il resto, perché “la vita interiore di uno scrittore fa spesso a pugni con la vita emersa”.

 

Apre le danze Sandro Veronesi, raccontando che, durante una radioterapia oncologica, leggeva Albinati e si ripeteva: “Uno scrittore è uno che mi fa star bene anche in una situazione così.” Michele Mari, lettore precocissimo e condannato a essere intelligente da un padre che lo esigeva, è uno che “coincide con la severità di casa sua”, la libreria-tunnel che si è costruito e il palinsesto familiare che ha generato l’isola da cui scrive romanzi sperando di essere approvato da un grande scrittore del passato. Valeria Parrella si dichiara senza mezzi termini marinaio di Liverpool (ah! le gioie dell’autobiografia dissimulata!) e ha sentito di essere una scrittrice solo quando ha trovato posto nella libreria che i suoi genitori si costruirono artigianalmente, bellissima storia familiare per interposta mensola letteraria. Domenico Starnone vanta certezze meno romantiche, perché scrivere è “sperimentare che lo sforzo è sempre fallimentare”. E sarà anche vero, ma Francesco Piccolo “tanga” con furore (insieme alla pagina) e scrive dalla mattina alla sera non stop, obbedendo alla disciplina di un tiranno odiato-amato che glielo impone al punto da aver insediato in lui la grande metafisica della rinuncia – Francesco Piccolo che un giorno seppe dire a se stesso: “Se vuoi scrivere devi essere più bravo.” Patrizia Cavalli si conclama senz’anima, tutta sensi e parole, bambina che mai sorrise in una foto, oggi capace – Benini sa scrivere perché sa vedere – “di trasformare i ricordi in teatro”, tanto da far affiorare tra le sue parole un bizzarro trovarobato di memorie fisiche, oggetti (compreso un Panama “da ragionieri”, copyright Elsa Morante) e un cristallino punto di vista: “Non esistono i sinonimi. E la poesia va verso l’aria”. Edoardo Albinati balla piano e ammette che ogni suo romanzo si nutre del crollo di tutti quelli che avrebbe potuto essere. Mentre per Melania Mazzucco, suscitatrice di mondi, scrivere è tenere insieme i vivi e i morti. Walter Siti, colto in flagranza d’inenarrabile pantofola – uno che ha letto Kafka a nove anni e Salgari da professore – assicura che la suprema calamita è la creazione di una “magia nella letteratura”.

 

Infine, una parola su Alessandro Piperno. Tra i dieci, lo scrittore cui essere più grati. Racconta in modo disarmante la sua vita di rimessa, afflitta dal sospetto del millantato credito perpetuo. “Ho sempre paura che dovrò pagare tutto…”. E tocca il Punto dei Punti quando rivendica: “Ho fatto i conti con la mia mediocrità”. Scrivere? “E’ bello svegliarsi la mattina con questo pensiero. Anche perché, più passa il tempo, più sei un uomo disperato e uno scrittore felice”. La vita è sposare sempre la ragazza più brutta. “E oggi” – confessa – “La coscienza di Zeno mi strazia”.

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