Zucchero nero

Matteo Matzuzzi

di Miguel Bonnefoy, 66thand2nd, 147 pp., 16 euro

Miguel Bonnefoy sa scrivere, il che è motivo di vanto in un’epoca in cui si sfornano quintali di libri di almeno duecento-trecento pagine cadauno per lo più superflui, nonostante il tentativo di imbastire trame sofisticate con retroterra psicologico corredato da colpo di scena.

Bonnefoy, trentunenne francese nato da madre venezuelana e padre cileno, ha il merito di scrivere racconti brevi (la brevitas è assai apprezzata) legati a quel che conosce meglio, il territorio in cui affondano le sue radici. Di lui hanno detto che si ispira al realismo magico e ai surrealisti, il che è vero se si pensa all’altra sua opera, quel Meraviglioso viaggio di Octavio finalista al Prix Goncourt del 2015. Zucchero nero – ben tradotto da Francesca Bononi – è la storia di una terra entrata nel mito per i tesori che nei secoli avrebbe accolto e occultato (i Caraibi dei galeoni presi d’assalto dai bucanieri), di una famiglia maledetta e di sentimenti forti. Due donne, Serena ed Eva Fuego: la prima alla ricerca disperata di una vita diversa rispetto a quella che le era toccata, che trascorreva le serate incollata alla finestra ascoltando la radio, sperando di vedere entrare l’uomo dei suoi sogni. La seconda, Eva, è la figlia adottata da Serena e Severo: strappata al fuoco che una sera divampò nelle piantagioni dei Bracamonte. Il nome le fu imposto da Serena, donna dalle idee progressiste che leggeva tutto quel che trovava, da una copia di Emma Bovary sprovvista delle pagine finali ad aggiornamenti sulla vita delle api. Su tutta la storia aleggia il tesoro di Henry Morgan, scaraventato giù dalla sua nave quando questa fece naufragio andando a incagliarsi in una palude di mangrovie, costringendo i pirati ad arrostire un povero bradipo che secondo il cuoco “aveva il sapore dell’aragosta”. E’ il prologo, la scena che apre il sipario sul romanzo, con un salto temporale di trecent’anni. Ci avevano provato in tanti, in quei tre secoli, a recuperare dobloni e patene dorate, vesti di pizzo e forzieri colmi di pietre preziose. Severo, che diventerà marito di Serena, ci aveva creduto così tanto da passare notti intere nella foresta a saggiare il terreno. E dopo di lui il misterioso “Andaluso” col cane Oro. Tutti lì per la stessa ragione. Solo a Serena di quel tesoro non interessava nulla: “Imbecille. Sarai un vero uomo solo quando riuscirai a tirare fuori un tesoro dal fondo dei miei occhi”, dirà ancora giovane a Severo che continuava a intontirla con dettagli circa la correttezza delle antiche mappe per gli scavi giunte da chissà dove. Una terra ricca, ricchissima ma che resta povera. Sembra la metafora del Venezuela di oggi – e i riferimenti velati al caos del paese sudamericano si colgono in più punti – poggiato su un tesoro immenso ma incapace di sfruttarlo. Nessuna cedevolezza alla retorica, però. Bonnefoy se ne guarda bene, lascia al lettore il compito di azzardare parallelismi, di tirare le proprie conclusioni, immergendosi nel mistero delle terre impastate di miti eterni e ancestrali credenze creole. 

 

ZUCCHERO NERO
Miguel Bonnefoy
66thand2nd, 147 pp., 16 euro

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.