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Quanto sono piatti e nauseanti gli incipit di certi romanzi italiani

Matteo Marchesini

Un dato è oggettivo: ormai si sono moltiplicati i romanzi che credono di poter sostituire le immagini con roboanti didascalie per ciechi

La scena è da anni la stessa: entro in libreria, apro i romanzi italiani impilati tra le casse, e ho una specie di vertigine. Potrei averne una simile davanti a una sterminata folla di gemelli dai tratti robotici come quelli di certi personaggi di Parise. Un attimo, e non distinguo più l’istinto polemico dal senso di colpa. A nausearmi è la piattezza da serie tv incongruamente spiaccicata su carta? O il mio fastidio è quello di chi traffica a sua volta in narrativa e teme di essere inghiottito dalla folla? Comunque sia, un fatto è certo. Oggettivamente si sono moltiplicati i romanzi che credono di poter sostituire le immagini con roboanti didascalie per ciechi. E in molti di questi romanzi torna un espediente che simboleggia bene la deriva. L’incipit in medias res ha una tradizione venerabile, e così il prologo spiazzante. Ma tutt’altra cosa è la paginetta in cui si mima la telecamera fissa spalancata su una scena onirico-pulp. Scena descritta, di solito, con uno stile che si vuole insieme chirurgico e soave. Dopo la paginetta, stacco: e dallo squarcio d’incubo si passa a un ambiente connotatissimo, dove si dipanano saghe di famiglia o destini eslege, magari immersi in magiche atmosfere regionali o in oscure trame eversive.

 

Siccome non mi interessa stroncare qualcuno ma indicare un sintomo, per dare un’idea di questi incipit ne invento qui uno a impronta, certo che i lettori capiranno. Sotto una copertina qualsiasi, potrei trovare ad esempio un attacco così: “All’inizio c’è solo un bambino. Cammina sulla spiaggia, e una scia di sangue gli cola dal sesso giù tra le ginocchia valghe. Sotto la luce dell’alba, sembra fatto della stessa materia che rigurgita dai bidoni e che intercetta i primi raggi sul cartello Sammontana. E’ un bambino di plastica o di latta. Non crede al dolore caldo che lo trascina giù. Non ci crede. Neanche adesso che le conchiglie si avvicinano agli occhi fino a occupargli tutto il campo visivo – neanche mentre si piega. Ora la sabbia gli inghiotte i malleoli, e il sangue continua a colare tra le fossette delle gambe nude. Da lontano una figura enorme, nera, viene verso di lui facendosi largo tra i rifiuti e gli ombrelloni. In mano ha una siringa, che alle sciabolate del sole nuovo brilla come un sorriso. Ecco, adesso la figura enorme sovrasta la sua miniatura curva sulla battigia. Non c’è bisogno di parlare, tra loro. Si fidano l’uno dell’altro. L’uomo accarezza i riccioli del bambino, scende a sfiorargli dolcemente la spalla. Trovare il punto giusto è un attimo. Affonda l’ago proprio sopra il gomito, e immagina che quel braccio bombato si sgonfierà come un palloncino. Ora il bambino lo fissa quasi con indulgenza. Poi si volta a guardare un gabbiano che trattiene sulla staccionata del chiosco un sacchetto aperto come una bandiera. Sei lettere: ‘S-T-A-N-D-A’. Sa già leggerle, ne è fiero. A un tratto sorride con una bocca che all’altro sembra grande come quella di un orco, e cade sul confine della schiuma tirrenica. ‘Tutto è compiuto’ pensa l’uomo, che non ha più parole che non siano ricordi. Intanto l’alba è diventata giorno”. Eccetera. Dopodiché pagina bianca, e un capitolo annunciato da qualcosa come: “Prologo in terra. Maccarese, retro della Trattoria Pediconi, ore 17,45 del 2 giugno 1978. Primo incontro con Zì Mammana”. Ecco: se ci viene in mente un incipit del genere, eseguiamo un esercizio di respirazione lenta per almeno mezz’ora. Poi usciamo, che è primavera.

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