Édouard Manet, La colazione sull'erba, 1863

“Basta con l'uomo sottomesso”

Catherine Millet contro il vittimismo e la moralizzazione dei sessi e dell’arte. “Le donne d’inizio ’900 erano più libere delle neofemministe isteriche d’oggi”

Critica d’arte, curatrice di mostre e scrittrice, Catherine Millet con coraggio continua a seguire il suo percorso di donna libera. L’autrice di “La vita sessuale di Catherine M.”, di “Une enfance de rêve” e di “Aimer Lawrence” preferisce il pensiero complesso al pensiero dominante. E non esita a nuotare controcorrente. In questa lunga intervista, evoca le derive del #MeToo, la vittimizzazione, il cattolicesimo e la moralizzazione dell’arte.

  

Revue des Deux Mondes – Quasi vent’anni fa, lei ha pubblicato “La vita sessuale di Catherine M.”, racconto autobiografico in cui parla della sua libertà sessuale senza tabù. Fu un successo dal punto di vista critico e di pubblico. Secondo lei oggi riceverebbe la stessa accoglienza?

  

Catherine Millet – Tutti quelli che hanno letto questo libro diciannove anni fa, o più recentemente, perché continua a essere venduto, non sono morti! Dunque, voglio credere che la loro mentalità sia la medesima e che lo accoglierebbero nella stessa maniera. Ma ciò che potrebbe compromettere questa accoglienza, è l’eco dato dai giornali al libro. Ogni giorno, osserviamo fino a che punto gran parte della stampa, in Francia, sia sottomessa all’attivismo dei movimenti identitari apparsi in questi ultimi tempi i quali, soprattutto quando si tratta di sessualità e di genere, sono particolarmente intolleranti. All’epoca, mi ero detta che il successo del libro si spiegava con l’evoluzione delle mentalità. Nelle nostre società occidentali, le persone avevano una mentalità molto più aperta rispetto agli anni Cinquanta, diciamo. Penso che sia ancora così e che ci sia un grande divario tra la mentalità della maggior parte della popolazione e i censori identitari di ogni schieramento.

 

Revue de Deux Mondes – Tra il 1968 e oggi come giudica l’evoluzione del dibattito sulla sessualità e del rapporto con essa? E l’evoluzione della relazione tra uomini e donne?

Catherine Millet – Tra le generazioni più giovani, constato che ci sono sempre meno ‘donne sottomesse’. Ci sono invece sempre più ‘uomini sottomessi’. Il che non è proprio un progresso.

Revue des Deux Monde – Nel 1977, lei è stata fra le firmatarie di un appello scritto da Gabriel Matzneff sull’età del consenso, reclamando una riscrittura delle disposizioni del Codice penale riguardanti le relazioni sessuali tra adulti e minori di 15 anni al fine di renderle meno rigide. Col senno di poi si pente di quell’appello? La mentalità dell’epoca non ha secondo lei legittimato, talvolta, una strumentalizzazione e un oggettizzazione dei minorenni da parte degli adulti? Quel periodo di grande permissività non ha provocato anche dei disastri?

Catherine Millet – Cerchiamo di essere precisi. L’appello che ho firmato è stato pubblicato nel gennaio 1977 sul Monde in occasione del processo che si stava per tenere contro tre uomini accusati di aver favorito e fotografato dei giochi sessuali tra adolescenti. Non c’era stata violenza. L’appello criticava la qualificazione di crimine per questi fatti e la custodia cautelare che era stata molto lunga: tre anni. Sottolineava la contraddizione esistente nella legge tra il fatto di accordare a un’adolescente di tredici anni il diritto di procurarsi una pillola anticoncezionale e il fatto di negarle il suo diritto al consenso sessuale. Quell’appello allargava anche il dibattito: come si può riconoscere a un adolescente di avere una capacità di discernimento tale da poter essere giudicato per un furto e non riconoscergli una capacità di discernimento nella sua vita sessuale? Infine, ricordo che abbiamo ancora tutti in mente l’affaire Gabrielle Russier (celebre fatto di cronaca francese, la storia d’amore tra una professoressa e uno dei suoi studenti, di 16 anni, che ispirò il film “Morire d’amore” di André Cayatte) aveva commosso anche il presidente Pompidou. Dunque, mantengo la mia firma! Di recente un progetto di legge volto a fissare un’età minima precisa per il consenso sessuale è stato abbandonato. Ho trovato questa decisione saggia. L’età del consenso di un adolescente varia così tanto da un individuo all’altro che mi sembra un abuso fissarla in maniera arbitraria. Ora, posso dirle che nulla eccita i moralizzatori più della visione delle orge che hanno in testa? Li deluderemo: no, non si trattava di una petizione che invitava a liberalizzare la pedofilia, come mi è capitato di leggere recentemente; no, tutti i sostenitori di quella che viene definita la “rivoluzione sessuale” non si sono gettati sui ragazzini e sulle ragazzine! Questa visione è l’ultima trovata dei reazionari di ieri e di oggi per saldare i loro conti con il Maggio ’68.

 


“Penso che ci sia ancora un grande divario tra la mentalità della maggior parte della popolazione e i censori identitari di ogni schieramento”. “Non so mai cosa rispondere alla domanda: lei è femminista?”


  

Revue des Deux Mondes – Questi ultimi cinque decenni sono stati anche quelli dell’affermazione dei diritti delle donne. Lei è femminista? Cosa significa questo termine per lei? Si riconosce nelle lotte attuali delle femministe?

Catherine Millet – Non so mai cosa rispondere alla domanda: “Lei è femminista?”. E quando rispondo dipende dal contesto e dalle circostanze. Come donna, penso di essere necessariamente sensibile ai problemi che incontrano le donne, ma in quanto essere dotato di compassione, e penso di poterlo essere, provo questo sentimento sia per gli uomini sia per le donne, e anche per gli animali. Per attenermi al femminismo, mi sento molto più vicina alle donne dell’inizio del Ventesimo secolo, che combattevano per i loro diritti civili e allo stesso tempo affermavano la loro libertà sessuale. Anche solo nella loro testa, erano molto più libere delle neofemministe isteriche di oggi. Neofemministe che, sia detto en passant, non si mobilitano molto per le donne vittime di condizioni di vita ben più drammatiche delle loro, in Siria o altrove.

Revue des Deux Mondes – Nel suo libro “Une enfance de rêve”, si rimane colpiti dall’influenza dell’educazione cattolica nella sua gioventù. Quale ruolo ha avuto questa educazione nel suo percorso artistico, intellettuale…e anche sessuale?

Catherine Millet – E’ un’influenza che ho subìto di mia spontanea volontà, che non mi era imposta dalla mia famiglia. Probabilmente questo gusto per la religione rispondeva alle aspettative di una bambina, poi di un’adolescente che aspirava a qualcosa di diverso dal mondo che la circondava, anche se non avrebbe saputo dire con precisione che cosa rappresentavano, molto semplicemente le permettevano di sperare. Così la religione mi ha insediato stabilmente nell’idea di una trascendenza, che non chiamerei più così, e che coincide oggi con dei princìpi, con un’esigenza etica, soprattutto e in maniera più gratuita e più astratta, un’esigenza di verità verso se stessi che chi scrive un libro o dipinge un quadro mette al centro della propria opera. Dopo tutto, perché uno scrittore o un pittore realizza un’opera? Nessuno gli ha chiesto nulla, se non una voce interiore, o più esattamente una voce che lo attraversa… E poi mi piace molto essere a contatto con le altre persone, è per questo che ho avuto bisogno di scrivere un diario rivolto al pubblico, di lavorare in squadra, di vivere nei quartieri popolari, insomma di essere attenta al mio “prossimo”. La vita sessuale che ho avuto corrisponde a un sogno, che avevo, di pacificazione delle relazioni con gli altri, attraverso un desiderio rivendicato e dei gesti di amore, o anche solo un po’ di tenerezza. So bene che non sempre accade! L’ho vissuto sulla mia pelle.

Revue des Deux Mondes – In seguito al movimento #MeToo, lei ha firmato nel gennaio 2018 una lettera aperta con un centinaio di donne, tra cui Catherine Deneuve e Ingrid Caven, nella quale dite: “Questa febbre di inviare i ‘maiali’ al macello, lungi dall’aiutare le donne a rafforzarsi, serve in realtà gli interessi dei nemici della libertà sessuale, degli estremisti religiosi, dei peggiori reazionari”. Le neofemministe fanno parte di questi nemici della libertà?

Catherine Millet – Assolutamente sì. Si può anche stabilire un parallelo tra il musulmano integralista che copre le donne per reprimere dentro di sé le proprie pulsioni e la giovane ragazza che prende il metrò indossando i pantaloncini corti e vorrebbe che tutti gli uomini restassero insensibili per non doversi chiedere perché lei è vestita così.


“La vita sessuale che ho avuto corrisponde a un sogno, che avevo, di pacificazione delle relazioni con gli altri, attraverso dei gesti di amore, o anche solo un po’ di tenerezza. So bene che non sempre accade!”


Revue des Deux Mondes – Lei difende la libertà più di ogni altra cosa. #MeToo è un’autorizzazione a liberare la parola. A osar esprimere ciò di cui si è stati vittime. Ogni denuncia è per forza una forma di vittimizzazione?

Catherine Millet – Certo che no, ma ciò che mi colpisce nell’ondata #MeToo è, in contrasto con una liberazione della parola, la proliferazione di un linguaggio astratto all’insegna del vittimismo. Le stesse parole, le stesse frasi ripetute da tutte. Invece di esporre delle esperienze personali, fatto che avrebbe potuto essere utile alla causa, le donne che aderivano a questo movimento si allineavano attorno a dei clichés. Del resto, l’hashtag #Metoo indica bene non l’emancipazione di ciascuna, ma l’aggregazione di tutte. Infine, le militanti di #MeToo tendevano a rivendicare questa pseudo-libertà per loro stesse, volendo allo stesso tempo chiudere la bocca a quelle che non erano d’accordo con loro. Le firmatarie della lettera aperta su Le Monde ne sanno qualcosa e io l’ho provato sulla mia pelle.

Revue des Deux Mondes – La moralizzazione della società tocca anche il mondo dell’arte. Lei è una figura conosciuta dell’arte contemporanea. Secondo lei questa moralizzazione imperversa anche in questo campo? In che modo? È una corrente mondiale? A suo avviso il politicamente corretto colpisce e la libertà d’espressione è malmenata?

Catherine Millet – Ne colpisce molti, ma non tutti! Altrimenti, avrei smesso di fare la critica d’arte. Detto questo, bisogna riconoscere che, per definizione, quella che oggi viene chiamata “l’arte contemporanea”, perché un pubblico sempre più vasto si riconosce nelle sue produzioni, è molto più saggia, se non conformista, di quella che negli anni Sessanta veniva chiamata “l’avanguardia”, ossia un’arte che fugge. 

 

La traduzione è di Mauro Zanon