Questa pandemia riattiva i caratteri nazionali. Come uscirne
Secondo Mathieu Bock-Côté, sarebbe un errore pensare di dover necessariamente imporre a tutti i popoli lo stesso modello di gestione, scrive il Figaro (3/4)
"E’ il primo riflesso degli ideologi: credere, indipendentemente dalle circostanze, che bisogna spingersi sempre più lontano nell’applicazione della loro dottrina. L’attuala pandemia lo conferma. Le élite globaliste, convinte che l’umanità sia lanciata in un processo di unificazione irreversibile e salvifico, sognano di globalizzarne la gestione”, scrive il sociologo Mathieu Bock-Côté. “La loro tesi è sempre la stessa: a un problema globale, si risponde con una governance globale. Per loro, nessuna risposta è possibile al di fuori dei parametri mentali dell’europeismo, e l’adesione spontanea dei popoli ai loro stati nazionali è assimilata al più deprecabile ripiegamento su se stessi. Questa tesi deriva, tuttavia, da una forma di inversione del buon senso. Essa poggia su una visione disincarnata dell’umanità, in cui i paesi, considerati interscambiabili, dovrebbero semplicemente sottomettersi a una tecnostruttura planetaria espertocratica, per trovare finalmente la giusta scala per la risoluzione dei loro problemi. Va da sé che la collaborazione scientifica internazionale sia una cosa positiva. Ma sarebbe un errore pensare di dover necessariamente imporre a tutti i popoli lo stesso modello di gestione, senza tener conto della singolarità di ciascuno di essi. Ne siamo testimoni: l’abolizione delle frontiere ha prodotto la decostruzione delle barriere protettrici fra le società. Le catastrofiche norme di igiene di alcuni mercati cinesi, unite al movimento permanente della civiltà globalizzata, hanno causato uno tsunami di proporzioni storiche, obbligando l’umanità al confinamento globale. In altri termini, la crisi attuale non è semplicemente sanitaria: è tutto il sistema della globalizzazione che essa mette in discussione, così come un certo modo di pensare l’arte del governo degli uomini. Da Tacito a Braudel, da Cesare a De Gaulle, i grandi storici così come i grandi politici non hanno mai dubitato, nel loro intimo, dell’esistenza di caratteri nazionali – si potrebbe persino dire, più in generale, di mentalità proprie a ogni civiltà. I caratteri nazionali non si presentano come essenze inalterabili, naturalmente, ma come formazioni culturali durevoli, che evolvono lentamente, indissociabili da un percorso storico e da una situazione geografica che alimenta ciò che fino a ieri veniva chiamato inconscio collettivo, il quale si riattiva quando la storia va incontro a turbolenze e torna a essere tragica. L’umanità appiattita ritrova allora il suo rilievo. Dinanzi alla crisi, i popoli reagiscono ognuno in maniera diversa. Si riattivano schemi mentali ancorati nella profondità delle rispettive culture.
Lo si vede nel rapporto all’autorità. Il contrasto tra la Francia e il Quebec è eloquente. Tanto la prima cerca un uomo provvidenziale, un monarca repubblicano capace di incarnare una verticalità sovrana, quanto il secondo chiede al suo primo ministro di reagire da buon padre di famiglia, affabile e rassicurante, in una piccola società, intrecciata, stretta attorno a sé e fiera di esserlo. Allo stesso modo, si osserva la differenza di temperamento tra le società occidentali, abituate alla massimizzazione delle libertà individuali, e le società asiatiche, che danno ancora una grande importanza alla disciplina collettiva. Non si organizzano nella stessa maniera. Come si può in questo caso negare l’importanza di un’identità comune per reagire in un momento in cui eventi drammatici richiedono una mobilitazione energica del corpo sociale? Le strutture profonde della realtà umana ricoperte da un velo ideologico finiscono sempre per riemergere. La globalizzazione non si è inceppata a causa della cattiveria dei nazionalisti, ma della diversità irriducibile del genere umano, che non è destinato a confinarsi in un’unica comunità politica senza che il tutto non scivoli verso il caos. Le culture non sono degli stock di costumi superficiali, che si possono togliere all’uomo per decreto. E’ necessario scandagliare le profondità arcaiche dell’immaginario delle civiltà per capire le idee politiche. L’hybris globalista si alimentava col mito di Babele che ha dato il primo volto alla tentazione demiurgica che tormenta l’umanità. Ma la diversità umana non è una parantesi nella storia. Gli uomini sono mutilati se rinchiusi in una gabbia globale. Ci si condanna inoltre a governarli male, trascurando le loro forze nascoste, i loro riflessi ancestrali, la loro psicologia collettiva. Si può continuare a costruire la torre di Babele quanto si vuole, ma finirà sempre per crollare”.
La traduzione è di Mauro Zanon