uffa!

Solo il tanto bistrattato capitalismo ha trasformato ambulanti in milionari

Giampiero Mughini

Una "parola controtempo", come da titolo della collana del Mulino che pubblica il volume di Alberto Mingardi. Una storia ricca di esempi come quello, inaspettato, di Nian Guangjiu nella Cina dopo Mao

La collana “Parole controtempo”, dove sono stati pubblicati oltre una ventina di volumetti densi e concisi dedicati ciascuno a una parola assieme diffusissima e controversa, è da tempo un’intelligente prerogativa editoriale del Mulino. Dubito che tra le parole diffuse nel nostro tempo ne esista una più controversa della parola “capitalismo”, che per molti allude immantinente al rapinare e allo sfruttare di cui sono capaci quei tipacci che rispondono al nome di “capitalisti”. Tanto che nell’uso politico corrente quella parola viene spesso accompagnata dall’aggettivo “selvaggio”, “capitalismo selvaggio” e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Che di meglio dunque del recente volumetto del Mulino dal titolo Capitalismo che porta la firma di Alberto Mingardi, il direttore di quell’Istituto Bruno Leoni che se ne fa un vanto del raccontare come il capitalismo abbia cambiato (in meglio) la storia del mondo. Gente che magari sostituirebbe la parola “capitalismo” con la parola “innovismo”, a dire come nascita e prosieguo del capitalismo corrispondano a una “grandinata di strumenti nuovi” che si sono abbattuti sulle società europee dove il capitalismo s’è realizzato. E dov’è facile fare dei conti. Nell’Inghilterra dell’Ottocento, dove il reddito pro capite (espresso in dollari dal valore d’acquisto del 1970) da 500 dollari che era nel 1830 passa nel 1900 a 1.200 dollari. E tanto più che vale quello che diceva l’economista austriaco Joseph A. Schumpeter, e cioè che di quei mutamenti apportati dalla trasformazione in senso capitalistico delle economie occidentali se ne giovarono innanzitutto i ceti medi, più di quanto non facessero quelli che stavano già al vertice del potere economico e sociale. Scrive Schumpeter: “L’illuminazione elettrica non è un gran regalo per chi ha soldi abbastanza per acquistare un numero sufficiente di candele e pagare la servitù occorrente per accudirvi”. E Mingardi commenta: “I surgelati non servono molto a chi abbia una cuoca che gli prepara il pranzo. Di qui il senso di fastidio, quasi, che l’emergere della società borghese ha suscitato presso le classi aristocratiche”.

Né c’è da sprecare una sola parola sulla competizione tra il passo economico del capitalismo e quello del comunismo reale, dove pezzenti li hanno presi e pezzenti li hanno lasciati se non per la casta dei dirigenti del partito unico al potere e questo tanto in Romania come in Ungheria come nell’Unione sovietica che va dagli anni di Lenin a quelli di Leonid Brežnev (nato in Ucraina nel 1906, morto in Urss nel 1982), quelli sì che se la spassavano come nessun altro membro di un partito politico operante nell’area occidentale del mondo. Esilarante il riferimento di Mingardi a una barzelletta che a suo tempo tutti raccontavano in Urss e che faceva ridere molto Ronald Reagan, ossia la volta che la madre di Brežnev lo va a trovare mentre è nel pieno del suo potere e lui le esibisce orgoglioso la quantità di beni che gli spetta in quanto capo della burocrazia di partito in Urss, e dunque il suo appartamento al Cremlino, la sua dacia in campagna, la sua villa sul Mar Nero, la sua lussuosa limousine. Al che la madre commenta: “Tutto molto bello, caro. Ma cosa farai se dovessero tornare i bolscevichi?”.

Ovunque si sia mossa, la borghesia capitalistica ha innovato, ha creato ricchezza, ha dato lavoro ad altri, ha migliorato il mondo tutt’attorno. Non te lo aspetteresti di trovare nel libro di Mingardi un personaggio quale il cinese Nian Guangjiu, uno che nella Cina dominata da Mao era un semianalfabeta senza lavoro fisso che per un paio di volte era stato sbattuto in galera perché faceva il venditore ambulante, mestiere incompatibile con il comunismo reale alla cinese. Dopo la morte di Mao lo tirarono fuori dalla cella, al che lui si mise a vendere per strada semi di anguria tostati, un cibo apprezzatissimo dalla gran parte dei cinesi e che lui seppe insaporire sino a farne una richiestissima merce contrassegnata dal suo marchio. Assunse della gente, ingrandì il volume del suo traffico, si mise in tasca del denaro sonante, ne mise in tasca ad altri. Più capitalista di così. I funzionari del comunismo lo tenevano d’occhio, tanto che la sua attività venne segnalata al nuovo conducator della politica cinese, Deng Xiaoping. Il quale disse di lasciar perdere, di stare a vedere che cosa ne scaturiva di buono dalla veemenza commerciale di Nian. Il quale divenne uno dei primi milionari cinesi. Beninteso non mancava chi glielo rimproverasse di essere diventato “un capitalista” talmente riuscito. Per sua fortuna c’era Deng che continuava a proteggerlo, a salvarlo, e dunque a salvare la ricchezza che Nian produceva in Cina.

In occidente, scrive Mingardi, l’attacco al “capitalismo” è stato anche l’attacco ad alcuni valori basilari che pur lo avevano promosso durante i due secoli del suo fulgore. Darci sotto, voler guadagnare e avere di più, lavorare il sabato e la domenica, rischiare le proprie scelte professionali, rischiare il proprio denaro, praticare la cultura dello sforzo e del lavoro, sono stati valori di massa che hanno qualificato a lungo la civiltà occidentale. Ai quali viene da molti contrapposto l’ideale del reddito “di base”, del reddito che uno si merita per il solo fatto di essere vivo e indipendentemente dallo “sforzarsi”, dal metterci un impegno particolare, dal volere comprare più libri e più dischi e più abiti che ti si confanno e vini migliori di che accompagnare i tuoi pasti. Se diffuse e praticate al possibile, queste ultime – sono le mie personali motivazioni al “darci sotto” – costituiscono opzioni negative quanto alla vitalità di una società reale? Non è che il fatto stesso della proprietà privata e del darsi come meta l’arricchimento individuale siano un micidiale incentivo alla corruzione personale e alla deviazione dalla legalità? A voi l’ardua sentenza.

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