Un murale dedicato a Kobe Bryant e alla figlia Gianna, a Los Angeles (foto LaPresse)

Uffa!

Vita, sogni e trionfi di Kobe Bryant, il predestinato entrato nella leggenda

Giampiero Mughini

Figlio d'arte, come papa Joe. Da Pistoia a Los Angeles, quarto tiratore di sempre del basket americano, l'erededità di Micheal Jordan, cinque volte campione Nba. Black Mamba tra spasmi agonistici e luccicanti immagini di sport, nel libro di Simone Marcuzzi

Abituato a reputare uno dei rimpianti della mia vita il fatto di non conoscere adeguatamente i complessi movimenti dei giocatori del basket, invidio molto a Simone Marcuzzi (un quarantenne che ha già al suo attivo alcuni romanzi) l’incipit di questo suo recentissimo libro dedicato a Kobe Bryant, il giocatore americano di pallacanestro che aveva raccolto l’eredità e la leggenda di Michael Jordan prima di morire a 42 anni in un elicottero sfracellatosi al suolo (Kobe, Piemme). 

 

Sono immagini di sport luccicanti quelle fanno da pagine d’avvio del libro di Marcuzzi. È come un sogno che Kobe sta facendo, a riassumere le ambizioni della sua carriera. C’è che siamo agli istanti ultimissimi della gara decisiva delle finali Nba. Il momento in cui la squadra di Bryant è sotto di due punti contro gli avversari, epperò i Los Angeles Lakers hanno il diritto di giocare la palla negli otto secondi che mancano alla fine della partita. Il che significa che hanno la possibilità di arrivare a un tiro da tre punti, alla vittoria. “Black Mamba” (il soprannome di Bryant) è in panchina, si sta asciugando il sudore, sa che toccherà a lui l’onere di quel tiro disperato con cui la sua squadra si giocherà tutto. Bryant guarda la panchina avversaria dove il coach ha chiamato a sé uno dei miti del basket americano, Magic Johnson, e sta dando a lui – un colosso da 2,06 metri – il compito di contrastare Bryant e a un compagno di Johnson il compito di “raddoppiare” il muro di braccia da erigere contro Bryant.

 

La rimessa della palla è dalla metà campo difensiva dei Lakers. Ovvio che il loro playmaker la scaraventi immediatamente nelle mani di Bryant, è una questione di secondi. Lui palleggia fulmineo, mano destra mano sinistra mano destra, supera la metà campo. Johnson gli si erge davanti in tutta la sua monumentalità, ha otto centimetri in più di altezza, 2,06 contro 1,98, e ne sa immensamente di basket dato che ha 19 anni in più di Bryant. Ai lati di “Magic” si appostano altri due giganti a formare una contraerea di mani e braccia praticamente insuperabile. Non fosse che Kobe scatta verso l’alto un attimo prima di “Magic” e va su, sempre più su, fino al momento in cui la palla si stacca morbida dalle sue mani, fa un percorso ad arco e precipita dentro il canestro. Per essere un sogno ha un suo corrispondente nella realtà, le cinque vittorie dei Lakers in Nba nelle quali ha fatto da traino Bryant, uno che ha indossato quella maglia per vent’anni. Nella storia del basket americano è stato il quarto tiratore di sempre, con 33.643 punti realizzati. Nel dicembre 2017, un anno dopo che Kobe aveva chiuso con la pallacanestro, i Lakers hanno ritirato in suo onore le maglie con il numero 8 e con il numero 24, le due maglie indossate da Bryant lungo la sua militanza in quella squadra. Tutti noi ricordiamo le lacrime sul volto di Michael Jordan, quando il pomeriggio del 24 febbraio 2020 allo Staples Center di Los Angeles commemorò Bryant morto il 26 gennaio di quell’anno. 

 

Era un figlio d’arte. Papà Joe, un omone da 2,08, era venuto a giocare in Italia nel Pistoia, una squadra di A2. In Italia Kobe (i genitori avevano scelto quel nome scorrendo il menù di una steak house in Giappone quando la signora Bryant era incinta) impara l’italiano e i primi rudimenti del basket. Fa le prime partitelle, si vede da lontano che con quella palla in mano è un predestinato. Quando rientra negli Stati Uniti, è fuori discussione che da un momento all’altro lui andrà a giocare nell’olimpo della pallacanestro mondiale, la Nba. L’Adidas lo mette nel mirino come suo futuro testimonial, e questo da quanto è funambolico il suo gioco d’attacco. Il 30 aprile 1996 Bryant fa una conferenza stampa in cui annuncia che non andrà al college pur di andare immediatamente a giocare in una squadra di professionisti. Alla lotteria del 26 giugno, quella in cui le squadre si scelgono ciascuna un suo debuttante, Kobe viene scelto alla tredicesima chiamata dagli Charlotte Hornets. Solo che loro si erano già accordati con i Lakers per uno scambio di giocatori, e così il diciottenne Bryant si trasferisce a Los Angeles, “la città dove il business flirta con la vanità”, a dirla con il prode Marcuzzi. È il più giovane giocatore della storia a entrare nella Nba. 

 
Nella sua seconda stagione da professionista, il torneo 1997-1998, quello che tutti trattano come il “baby Jordan” se lo trova di fronte il grande Michael Jordan, uno che si accinge a vincere il sesto torneo Nba con la maglia dei Chicago Bulls. I due hanno la stessa altezza e la stessa sagoma muscolare, giocano nello stesso ruolo, in campo hanno movenze incredibilmente analoghe. Durante la pausa di un match Kobe chiede consiglio a Jordan, che aveva 15 anni più di lui, su come tentare un tiro particolarmente difficile. Quanto ai tiri a canestro, Jordan ne realizza caterve in quelle due partite vinte dai Bulls, ma nel confronto con quello che è stato indicato come il più grande atleta di tutti i tempi Kobe non sfigura affatto. E del resto le coincidenze e le sovrapposizioni simboliche tra i due giocatori sono destinate a continuare. Nella stagione 1999-200 Phil Jackson, quello che con Jordan aveva vinto sei titoli Nba, diventa il nuovo coach dei Lakers, la squadra dove lo aspettano due giocatori/monstre quali Shaquille O’Neal e Bryant. Con Jackson arriva ai Lakers l’assistente allenatore Tex Winter, quello che aveva particolarmente curato lo schema offensivo dei Bulls detto “attacco triangolo”, uno schema che agli occhi di Kobe appare affascinante. La realtà del basket americano supera la fantasia nell’offrire lo scenario di un possibile passaggio delle consegne tra Jordan e il “baby Jordan”, quello che Jordan nella sua orazione funebre chiamerà “il mio fratellino”. Nella stagione 1999-2000 i Lakers partono favoriti. Vinceranno il titolo per tre stagioni successive, né più né meno di quello che a Jackson era riuscito da allenatore dei Bulls. Il giocatore simbolo di quei tre trionfi però non è Kobe, e bensì il gigantesco O’Neal, tutte e tre le volte eletto il miglior giocatore di quelli che hanno disputato le finali. Non a caso è 18 cm. più alto di Kobe e ha sei anni in più. La loro rivalità è frastornante. 

 
Le cose mutano profondamente nelle due stagioni successive. Jackson va via, O’Neal viene ceduto, sul capo di Kobe pende un’accusa di stupro che non è uno scherzo, i Lakers sul campo vanno a picco. La stagione decisiva per Kobe diventa quella 2005-2006, la sua decima nella Nba, quando ha 28 anni. Con Jackson tornato alla guida dei Lakers, sarà per Kobe una stagione tecnicamente fantasmagorica, illuminata da una partita in cui ha realizzato 81 punti, la seconda prestazione nella storia della Nba dopo i 100 punti realizzati da Wilt Chamberlain il 2 marzo 1962 in una partita di cui non esistono immagini televisive. Gli anni successivi sono quelli dell’apoteosi. Medaglia d’oro olimpica con gli Stati Uniti nel 2008, quarto titolo Nba nel 2009, quinto titolo nel 2010, uno in più di O’Neal uno in meno di Jordan. Anni e spasmi agonistici che Marcuzzi racconta benissimo. Leggetelo, il suo libro.

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