(foto LaPresse)

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Tra sinagoghe e cimiteri. L'architettura ebraica in Italia in mostra a Ferrara

Manuel Orazi

Nella cornice del Meis, ancora in attesa di un completamento definitivo, un allestimento curato da Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto

Il Museo nazionale dell’Ebraismo e della Shoah di Ferrara è uno delle tante opere incompiute italiane. Progettato come trasformazione dell’ex carcere di via Piangipane – dove fu rinchiuso anche Giorgio Bassani in quanto ebreo e azionista – il museo manca ancora delle nuove aggiunte progettate dallo studio italo-francese Scape vincitore del concorso nel lontano 2010, ed è  in attesa di completamento: magari il ministro Sangiuliano, che ama ripetere che il conservatore è l’uomo del dopodomani, potrebbe accelerare la pratica. Nel frattempo, dalla sua inaugurazione nel 2017, il Meis ospita mostre di vario tipo e ora la prima dedicata all’architettura ebraica, tema problematico perché per varie ragione non esiste e non è mai esistito uno stile o un’espressione israelita vista la sua natura policentrica e articolata.

 

Abitare significa lasciare tracce, ha scritto Walter Benjamin, e nel caso della presenza ebraica italiana questo si è tradotto essenzialmente in due tipologie presenti già nel titolo della mostra: “Case di vita. Sinagoghe e cimiteri in Italia” a cura di Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto – fino al 17 settembre. Nonostante molti di questi spazi siano scomparsi, specie nei centri minori e al sud dopo il decreto dell’Alhambra che nel 1492 cacciava gli ebrei da tutti i possedimenti spagnoli, in età moderna si sono rinnovati grazie all’emancipazione e a una nuova età dell’oro dell’integrazione dopo l’Unità d’Italia, bella quanto effimera perché il 1938 e la guerra spazzarono via tutto. Solo per fare un esempio,

 

Luca Beltrami, architetto dei maggiori monumenti milanesi – torre del Castello Sforzesco, sede del Corriere della Sera, statua del Parini – fu autore anche della nuova sinagoga meneghina così come il suo collega Giuseppe Antonelli progettò quello che avrebbe dovuto essere il tempio della comunità torinese e che poi è diventato il landmark di tutta Torino, la Mole antonelliana, appunto. Prima del Risorgimento infatti le sinagoghe tendevano a mimetizzarsi nella città, a non farsi notare, riservando le decorazioni al loro interno. Dopo l’emancipazione raggiunta con lo statuto albertino, l’abolizione dei ghetti, la presenza ebraica divenne più evidente nei paesaggi urbani: non più edifici anonimi, a volte enormi come a Trieste, Firenze e Roma, anche nel caso dei cimiteri: non più romantici “orti e campacci” defilati in zone appartate come al Lido di Venezia o sul Monte Cardeto ad Ancona, bensì nuove sezioni israelitiche nei camposanti comunali talvolta con tombe di famiglia sfarzose quanto quelle dei cristiani.

 

Il catalogo Sagep ospita contributi sia di architetti (Donatella Calabi, Luca Zevi, Sergio Pace, Roberto Dulio) sia di studiosi di altro genere, mentre sull’allestimento – una lunga striscia arancione che attraversa tutti gli ambienti come un lunghissimo rotolo della Torah – il sottosegretario Vittorio Sgarbi ha dichiarato: “L’architetto Giovanni Damiani ha fatto un lavoro che vuole farsi vedere, ma lo ha fatto con misura”.

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