Terrazzo

Dodi non abita più qui

Michele Masneri

Perdersi da Harrods durante i giorni dell'incoronazione di Carlo. Ma il mausoleo superkitsch di Dodi e Diana non c'è più

Londra. Chi voleva provare un brivido alternativo, e rendere un omaggio a Diana durante le celebrazioni di Carlo e di Camilla già “Rottweiller” e oggi dolce nonnina regale, confidava di recarsi da Harrods e cercare il famoso mausoleo egizio all’interrato del grande magazzino, epitome di kitsch funebre dove per anni curiosi di tutto il mondo hanno deposto fiori e lasciato struggenti messaggi nel librone delle dediche alla principessa del popolo e dei panfili. 

 

Ma poi lì, nel grande magazzino che da sempre è soprattutto teatro di stravaganze britanniche, fondato da Charles Henry Harrod nel 1849 col motto “Omnia Omnibus Ubique”, tutto per tutti ovunque”, manifesto della Londra coloniale e pazzamente cosmopolita, centomila metriquadri, 330 dipartimenti, ci si trova invece in quella che è forse la rappresentazione plastica di cosa sarà Londra e la Gran Bretagna sempre più nei prossimi anni post Brexit: un paradiso per arabi e indiani affluenti (che comprano) e turisti europei (che guardano e basta). Tra reparti “superbrands” per uomini e donne, una caffeteria Prada, le solite meraviglie alimentari delle Food Halls con sandwich che costano quanto un’utilitaria, e il dolcetto ufficiale delle celebrazioni carliste, un cartoccio di fragole placcate al cioccolato Godiva, viene 10 pounds per numero tre fragole, mentre la tazza di Carlo sicuramente prodotta in Cina  sta a  35.

 

Ci si perde su e giù tra meandri cadenti oppure appena rinnovati, si finisce all’ultimo piano tra ambienti modernissimi da Star Trek arancione dove sfrecciano a mezz’aria droni luminescenti – è il reparto “minibrand” per bambini. Lì tra elefanti di peluche a grandezza naturale, ziggurat di Lego e Playmobil a edizione limitata si affollano appunto famigliole riflessive baffute e scure di pelle, in tutine di cachemire e almeno Hermès e Fendi al braccio. C’è una carrozzina nera Cybex con finiture oro che costa 2269,95 pound per rampolli che un giorno guideranno fondi sovrani.  Oggi peraltro gli elefanti sono solo di peluche, il celebre negozio di animali al secondo piano ha chiuso anni fa, Reagan vi comprò un piccolo elefante vivo da portare a una convention repubblicana, Noël Coward un baby coccodrillo. Oggi pare impossibile trovare un vero inglese, oltre che un vero animale, nell’edificio. 

 

Non ci sono neanche più le lezioni di portamento per signorine, o di volo per aspiranti aviatori, tra i corsi che un tempo la ditta offriva, e anche la storica sala da tè all’ultimo piano nei sottotetti è deserta, agli arabi non piacerà come format. Ma neanche il mausoleo di Diana c’è più. “Ma come, non lo sa? E’ stato rimosso anni fa”, dice un commesso gentile. Infatti, scendiamo al piano meno uno, nella cosiddetta ala egizia, tutto un trionfo di geroglifici, iscrizioni, 12 bassorilievi di Ramsete faraone (ma con le sembianze di Mohamed al Fayed), fiammelle votive. Il cosiddetto “egyptian escalator” fu voluto dall’imprenditore egiziano quando acquistò il colossale grande magazzino nel 1985. Quella di Harrods era stata la prima scala mobile in funzione a Londra, nel 1898 (lo choc dei primi utilizzatori era tale che arrivati in cima veniva offerta ai maschi una coppa di brandy per riprendersi. Alle donne invece solo i sali).

 

Poi un secolo dopo arrivò appunto l’ala egizia di Fayed, sembra di stare al British Museum ma versione americana. Nel 1997 quando avvenne la tragedia di Diana e del suo rampollo maciullati nel tunnel dell’Alma il tycoon eresse due angoli votivi in negozio.  Convinto ossessivamente che l’assassinio di Diana e  del figlio fosse un complotto ordito dal principe Filippo, ultima di una serie di vessazioni dell’establishment inglese contro lui e la sua stirpe, cominciò con una piccola piramide, di cristallo, un mini Louvre, che conteneva l’anello di fidanzamento che Dodi offrì alla principessa. E un calice sempre di cristallo in cui ella bevette l’ultimo sorso della vita mortale e principesca. Poi fu la volta di qualcosa di più ambizioso: non un’enorme piramide di cristallo sul tetto come inizialmente concepito bensì  “Innocent victims”, un gruppone di bronzo rappresentante Dodi e Diana che, sempre al piano -1,  afferrano un incolpevole albatro che si vorrebbe librare in cielo. “Sono anni che non c’è più”, dice oggi l’addetto. Al suo posto infatti tra le due rampe delle scale mobili c’è un enorme orso Paddington vestito con la giubba rossa e il cappello di pelo nero, il bearskin hat delle guardie del Re. E delle teche con delle testine del ceramista americano Jonathan Adler. Insomma, damnatio memoriae (o cancel culture?) al grande magazzino? Studiando, scopriamo che i gruppi scultorei sono stati eliminati nel 2018. Nel 2010 Fayed ha venduto Harrods al solito fondo sovrano del Qatar, che ha conservato il monumento per altri otto anni e poi ritenendosi disimpegnato gliel’ha cortesemente riconsegnato. 


Eliminando il mammozzone i nuovi proprietari sperano probabilmente anche in una rinnovata benevolenza da parte della Casa Reale, che potrebbe ridare al magazzino i  “royal warrant”, cioè i fondamentali sigilli di reali fornitori, che Harrods orgogliosamente issava dal 1913  ma che erano stati rimossi nel 2000 per l’incresciosa vicenda con Diana. Ai tempi d’oro la regina faceva volentieri compere da Harrods; ma la tremenda avvisaglia si era avuta nel 1999, quando Buckingham Palace per la prima volta non fece il consueto ordine per i 1500 christmas pudding destinati a tutto il personale di palazzo, rivolgendosi invece alla plebea Tesco. Mentre gli operai smontavano gli stemmi reali dall’edificio, Fayed non si perse d’animo. “La famiglia reale, seppur il suo prestigio sia molto diminuito negli anni, e non tale da influire sulle nostre vendite, sarà sempre benvenuta a far compere nel mio negozio. A parte il principe Filippo”. In realtà anni dopo fu lui a mollare, vendendo tutto. Da allora, dell’oggi novantaquattrenne uomo d’affari egiziano non si è più saputo praticamente nulla.     

 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).