Terrazzo

Milano, politica e week. Colloquio con Silvia Botti

Michele Masneri

Lo strapotere dei privati e il pubblico che annaspa, la questione della casa e la comunicazione. Parla la giornalista e architetto milanese

Ancora sulla annosa questione “su Milano”. Se prima del Covid era riprovevole parlarne male, oggi pare diventato di gran moda. Articoli, segnalazioni, adesso il libro di Lucia Tozzi (“L’invenzione di Milano” appena uscito per l’editore Cronopio) che narra di una città che in una specie di cortocircuito e sbornia di comunicazione si è “posizionata” talmente alta, scriverebbe un comunicatore  milanese, che oggi i milanesi non se la possono più permettere (sottotitolo “Culto della comunicazione e politiche urbane”).  

 

Silvia Botti, architetto e giornalista, per anni direttrice di Abitare, braccio destro di Stefano Boeri assessore all’urbanistica e oggi presidente della fondazione Michelucci e tenutaria della rubrica “Metropolitana” online, non è d’accordo. “In realtà questo accento sulla comunicazione mi fa abbastanza sorridere”, dice al Foglio “Perché è il paradosso di Milano. Milano è la capitale della comunicazione, ma quando deve comunicare sé stessa va in tilt, per una ragione di base: è una città caratterizzata da una regolazione politica debole, e se la politica è debole come fai poi a fare una comunicazione pubblica forte?”. Fa riferimento a quello che è uno dei mantra milanesi, che Milano è talmente organizzata che non serve in fondo un sindaco? “No, anzi. Milano ha un grande bisogno di regolazione politica. Soprattutto in un momento di crisi come oggi.  In un’altra crisi, il passaggio tra il fordismo e il post fordismo negli anni Settanta, coincisi col terrorismo e anche con la criminalità, la città ha avuto uno straordinario governo col sindaco Tognoli, che decise di avere una città aperta, di portare la cultura ovunque, la Scala agli operai, la città che partecipava tutta”.

 

Come oggi con le week?. Una delle accuse alla Milano di oggi è la proliferazione di eventi, la settimanalizzazione senza limite degli appuntamenti in una giostra senza fine. “In realtà le week erano due all’origine, Piano city e Boook city, su due temi che la città aveva nel suo dna: la musica,  col conservatorio, la Scala, l’orchestra Verdi, e poi l’editoria e i lettori, perché si vendono più libri a milano che nel resto d’italia”, dice Botti. “Tutto il resto è venuto dopo. Ma oggi le week sono diventate un carrozzone che nasconde i problemi, che ci sono. Servono a far finta che Milano sia ancora la capitale internazionale della moda e del design come anni fa, cosa che non è più. Tra esternalizzazioni e proprietà passate all’estero anche parlare di made in Italy diventa sempre più difficile”. 


Il tema per cui oggi tanti amano odiare Milano è soprattutto quello del caro abitazioni. “Ma è più una conseguenza che una causa. Di una fase di trasformazione enorme che riguarda non solo Milano, col passaggio all’economia digitale le città non sono più abitate da chi ci risiede stabilmente bensì da una quantità di persone in transito: chi studia, chi fa turismo, chi lavora, e devi trovare un equilibrio”. I due problemi veri sono piuttosto l’inquinamento, con un’aria irrespirabile di cui nessuno sembra preoccuparsi, e l’ ingiustizia sociale. Perdono spazi i ceti medi e hai un problema di povertà sempre più pressante. Sembra che in  questo momento Milano stia dando più risposte a chi è di passaggio rispetto a chi ci vive. E’ come se si fosse rinunciato a un diritto universale alla cittadinanza. Una volta non era così. Diritto alla casa, al lavoro, i figli di operai diventavano medici, l’ascensore sociale funzionava. Oggi non più. Era la città delle occasioni, dove valeva la pena vivere, dove i genitori erano disposti a fare sacrifici bestiali per mandarci i figli”.

 

Oggi la mia impressione è che i genitori continuino a mandare i figli a Milano, magari dal sud, ma o sono ricchi, e gli comprano le case, oppure, se sono poveri, poi questi figli non potranno comunque rimanere a Milano, e se ne torneranno da dove sono venuti, oppure andranno a stare in qualche cittadina di provincia. “Oggi Milano attira i talenti italiani, mentre i figli dei milanesi magari vanno all’estero”, dice Botti. “Anche perché se fino a qualche anno fa si faceva il conto di quanti headquarters di aziende si aprivano in città, adesso tutto è residenziale. E qui bisogna fare attenzione perché se Milano diventa un quartierone residenziale europeo comodo perché in fondo Zurigo è a tre ore di treno, e Linate è vicina, non è un modello sostenibile in grado di trainare una regione o tantomeno uno stato”. Una gigangesca Citylife, e i poveri via. Ma è un errore, anche a vederla cinicamente. “Tu hai bisogno che queste persone restino in città. Se una città è ospitale coi suoi ceti più deboli si sviluppa e diventa più forte”. 

 

Un altro tema è lo stadio. “Lo stadio è un grandissimo pasticcio amministrativo che si trascina da anni. Ma andrebbe affrontato per quello che è: se una squadra decide che ha bisogno di uno stadio lo faccia, però non può pretendere di avere un’area pubblica gratuitamente e farci una speculazione immobiliare, quella è un’altra cosa”. Insomma, dopo la moda e il design, Milano, dice lei, è diventata la capitale della speculazione edilizia. Praticamente è diventata Roma. “No, non esageriamo. Milano ha inventato il rito ambrosiano negli anni Cinquanta, mano libera ai privati, accordi di programma singoli, ma i privati fanno il loro lavoro bene. E’ il pubblico che non lo fa. E poi cambiano, questi privati, un conto è un imprenditore che fa la sua porzione di città vicino alla sua fabbrica, un altro sono fondi immobiliari senza volto. Ma poi lo stato è in difficoltà. Sono lontani i tempi dei piani pubblici, l’Ina casa, costruire abitazioni nuove è un problema.  Il comune non ha neanche i soldi per ristrutturare le case popolari che già ci sono”.


A me poi pare che il tema a monte di tutto sia quello dei salari.  In Italia viviamo nella negazione. Si pensa di poter vivere davvero a milleduecento euro a partita Iva. Ma se stai a Benevento o Brescia con la casa di nonna forse ce la fai, a Milano il bluff non regge. “La parola salario è fuorimoda, nessuno la  pronuncia più. E’ una follia. Ma Milano, che è sempre stata all’avanguardia, potrebbe diventare all’avanguardia adesso in questo: un posto dove le professionalità vengono riconosciute e pagate il giusto. Una città in cui costa molto vivere ma dove ci sono anche occasioni per guadagnare bene”.  Adesso accuseranno anche a lei di essere un’odiatrice di Milano. “No, io non voglio demonizzare nulla. Milano ha ancora delle risorse straordinarie; la sensazione è quella dell’elastico, l’abbiamo tirato al massimo, dicendoci che era bella bella bellissima, ma oggi l’elastico è saltato e nel racconto che se ne fa adesso siamo arrivati all'opposto, sembra la Calcutta degli anni Sessanta. Io non ero una delle grandi ottimiste della grande Milano con Expo e non sono pessimista oggi. Peraltro non condivido questa idea che tutto sia ricominciato con Expo. Che è andata bene perché la città era pronta: ricordiamoci che l'esposizione era partita malissimo ma sono stati i milanesi negli ultimi mesi col passaparola a rilanciarla. Perché la città era già ripartita. Sono stati i milanesi a rilanciare l’Expo, e non il contrario”.

Di più su questi argomenti:
  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).