Terrazzo

Un'accademia molto speciale. La Fondazione Piano, nella sua Genova

Enrico Ratto

Nel capoluogo ligure, all’inizio degli anni Novanta, l'archistar decide di trasferire il suo studio che diventerà il Renzo Piano Building Workshop e lo costruisce, racconta la figlia “pensando al sogno del Barone Rampante, con l’idea di costruire una casetta sull’albero fatta da un adulto”

L’Europa di Renzo Piano è una metropoli diffusa che, probabilmente, passa anche per un puntino geografico ai confini del comune di Genova, Vesima, dove i treni fermano solo d’estate, ma dove il mare è completamente aperto sull’orizzonte, la luce arriva da sud e rimbalza sull’acqua (osserva l’architetto) e dove le enormi navi portacontainer che entrano in porto trasformano il paesaggio ogni ora.


E’ qui che, all’inizio degli anni Novanta, Renzo Piano decide di trasferire il suo studio che diventerà il Renzo Piano Building Workshop e lo costruisce, racconta la figlia Lia Piano “pensando al sogno del Barone Rampante, con l’idea di costruire una casetta sull’albero fatta da un adulto”, in questo caso ci si accede attraverso una cabina su rotaia. Immaginiamo quanto fosse impossibile questo cantiere – dove tutto è in pendenza, dove il terreno è inaccessibile ai mezzi ma solo alle braccia – e quanto possa essere stato divertente questo progetto per chi passa la vita a sfidare la forza di gravità. Ma è stato anche un modo per lasciare la città, a Genova lo studio precedente era in una bellissima piazza del centro storico (stretto e in pendenza, ma senza il mare), mentre a Parigi si affaccia ancora oggi su Rue des Archives, molto traffico, moltissimi turisti col naso all’insù quando vedono spuntare Beaubourg lì di fronte.


Nel 2008, in un edificio ai piedi dello studio, Villa Nave, arriva la Fondazione, oggi diretta da Milly Rossato Piano, per la conservazione didattica, e da Lia Piano, che segue il lavoro editoriale. “La scintilla è arrivata con un viaggio in Giappone di mio padre” racconta Lia Piano “quando ha visitato il Tempio di Ise si è reso conto che, anche per chi come lui è poco propenso all’accademia, c’era una possibilità di trasmettere la conoscenza. Era il metodo della bottega, dell’imparare facendo. E’ così che si fa da secoli al Tempio di Ise, smantellato e ricostruito ogni generazione, e per caso lui lo ha visitato a sessant’anni, proprio l’età in cui si insegna la ricostruzione alla generazione successiva”.


Dimentichiamo così la Fondazione come contenitore di un archivio immobile e pensiamo a un essere vivente che muta nel tempo. Le archiviste – provenienti da ambiti dove il passato e il presente sono momenti ben definiti, e del futuro non si discute granché – hanno impiegato qualche anno per trovare un metodo di lavoro. Alla fine, la soluzione è stata inventarselo. “Quando è nata la Fondazione siamo stati i primi in Europa ad affiancare uno studio in attività” ci racconta Chiara Bennati, responsabile degli archivi, che per lei sono solo uno degli aspetti del lavoro sulla memoria “questa cosa ha avuto una ricaduta su tutto il nostro lavoro, lavoriamo sulla materia viva”.


Il risultato è che tutti vengono qui per imparare come si fa. Due mesi fa Norman Foster ha fatto una visita di cortesia, non era mai stato a Genova, ci è arrivato passando per Vesima. Richard Rogers era di casa. Certo loro sono gli amici, poi ci sono i clienti, che arrivano qui per scoprire più che per confermare “Ma riceviamo anche visite di persone che attraversano l’Europa a piedi e si fermano per vedere che lavoro viene fatto qui dentro” raccontano. 


Ci si siede al grande tavolo, modulare e su ruote (l’assetto variabile è una costante, non solo mentale) e si alzano gli occhi. Anni fa, Gillo Dorlfes ha guardato il soffitto di pannelli sospesi che lasciano passare la luce e lavorano con i flussi d’aria (no aria condizionata) e ha detto: questa è la copertura del primo edificio dell’impresa Piano, anni Sessanta, gli esperimenti in famiglia. Esatto. Preso. Coperture, tensostrutture, strutture leggere e tese in poliuretano, sono i grandi temi ricorrenti di Renzo Piano, sui quali continua a ragionare e sperimentare. “Tutto ciò che si può tendere e sollevare gli piace” ammette Lia Piano. Anche la riproduzione in vetroresina della mitica “gerberette”, all’ingresso, simbolo della struttura del Beaubourg, serviva a sostenere gli elementi esterni dell’astronave atterrata nel Marais. E’ un archivio di idee, la cosa più distante dal museo che si possa immaginare. “Fin dall’inizio, dagli anni Sessanta, c’era la volontà di documentare e di comunicare ciò che si faceva” spiega Lia Piano “solo che negli anni Sessanta c’erano più idee che lavori. Una particolarità della Fondazione è mostrare il lavoro in progress. Abbiamo aperto la Fondazione, abbiamo imparato un metodo e l’abbiamo condiviso in tempo reale, senza paure, senza voler raccontare solo i successi”.


Oggi, questo archivio non è visitato solo dal pubblico o dalla stampa, offre materia – viva – di studio prima di tutto agli architetti, sicuramente quelli molto giovani – gli universitari, i dottorandi – ma anche a chi scende dallo studio con la monorotaia e attinge al materiale della Fondazione per lavorare ai nuovi progetti. Alle pareti sono appese le planimetrie dell’Hospice Pediatrico di Bologna, in fase di realizzazione, e accanto ci sono i disegni di una unità di emergenza progettata da Piano e Rogers nel 1971. “Si prendono idee del passato e si attualizzano, sulla base delle nuove esigenze, anche sociali” spiegano. Il progetto del modulo abitativo “Diogene” sta lì, ingraffettato alla parete di compensato, è tornato d’attualità durante i vari lockdown, quando tutti correvano a teorizzare la casa autosufficiente, la sostenibilità energetica, il vivere bene in poco spazio. Ora, forse, se ne riparlerà tra qualche anno, per altri motivi, per altre urgenze, in contesti completamente diversi. “E’ questa l’idea di archivio vivo” continua Chiara Bennati “un attivatore di pensieri, di idee per il futuro”. Il sogno è fare tutto per tutti (e gratis), che è il contrario del fare un po’ per pochi. E che riprende molto quell’idea di “posto per tutti” che i due trentenni Piano e Rogers hanno scritto sullo statement per il concorso del Pompidou.


E poi c’è l’archivio dell’esperienza, che non riguarda planimetrie, modelli e, oggi, terabyte di file digitali. Riguarda la raccolta delle testimonianze degli architetti che hanno lavorato ai progetti storici. E’ un nuovo fronte su cui sta lavorando la Fondazione. “Serve a rendere materia viva anche l’esperienza e le connessioni, da cui nasce un metodo di lavoro”, spiegano. “Abbiamo avuto la fortuna di poterlo fare, e questo è uno di vantaggi del lavorare accanto a uno studio in attività, ma anche l’intuizione di farlo”.
E’ semplice domandarsi perché tutto questo sia qui, e non a Parigi. “All’inizio si è discusso se aprire la Fondazione a Parigi” ricorda Lia Piano “ma nel momento in cui decidi di fare una Fondazione con l’idea che rimanga traccia della tua memoria, viene abbastanza naturale farlo nel luogo in cui sei nato. Mio padre ha vissuto e lasciato una traccia in moltissimi luoghi del mondo, ma alla fine il posto dove è nato è uno solo”.

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