Scuola primaria (2004) a Gando, Burkina Faso via CC BY-SA 3.0 

Terrazzo

Pritzker d'Africa e attivismo

Sara Marzullo

Francis Kéré è il primo architetto africano a ricevere l'ambito premio. Apprezzato il suo stile: una miscela di capacità progettuale, lavoro con la comunità, ingegneria sostenibile, empowerment economico, arte e rappresentazione culturale: in una parola appropriatezza, o forse organicità

Di Francis Kéré si dice che sia un attivista dell’architettura, uno il cui lavoro è talmente all’avanguardia da aver conquistato il prestigioso premio Aga Khan col primo progetto costruito, una scuola nel suo villaggio natale, Gando, in Burkina Faso – un edificio semplice in mattoni di terra cruda, che ospita bambini e ragazzi di uno dei paesi col più basso livello di alfabetizzazione del continente. La scorsa settimana Kéré è stato annunciato come vincitore del Pritzker Prize, forse la massima onorificenza del settore; è il primo architetto africano a riceverla. La giuria ha aperto la propria motivazione con una domanda, “qual è il giusto approccio alla pratica quando si lavora con tutto a sfavore? deve essere modesta e rischiare di soccombere alle avversità?”, per discutere l’ambizione, il sottile confine tra wishful thinking e cambiare le cose. Il resto del discorso parla di consapevolezza, comunità, giustizia sociale e ambientale: a presiedere la votazione è stato Alejandro Aravena, che il premio lo aveva vinto nel 2016, un altro architetto-attivista che ha messo al centro dei suoi progetti gli interessi sociali delle comunità. Non dissimile all’approccio di Kéré, la cui architettura si può descrivere come una miscela di capacità progettuale, lavoro con la comunità, attivismo, ingegneria sostenibile, empowerment economico, arte e rappresentazione culturale: in una parola appropriatezza, o forse organicità.

E’ questa l’avanguardia, costruire spazi che possano essere usati dalla gente, che abbiano legami con la comunità: che siano campus in panorami desertici o parlamenti che offrono ombra a chi gli passa accanto. Interconnessione è l’altra parola che viene in mente: progettare bene, perché il futuro è incerto e ogni cosa dipende dalle altre. La motivazione aggiungeva anche che Kéré ha trovato un modo brillante di fare architettura, ispirato, che cambia le regole, per rispondere alle domande del presente. Così parlava di lui anche il regista Daniel Schwartz, che nel 2016 aveva girato un ritratto dell’architetto, diciotto minuti che si trovano sul suo sito: “Le persone ora si rivolgono ai designer per affrontare problemi insolubili, dalla povertà al cambiamento climatico”. A quelle domande Kéré pare in grado di rispondere, usando un mix di bassa tecnologia e alto design e collaboratività. Nel film Kéré visita progetti in corso, lavora a progetti per i rifugiati siriani e torna a Gando per vedere cosa succede nella scuola costruita quindici anni prima; in una scena le donne lo invitano a un’assemblea per discutere il futuro del progetto, un oggetto ancora infinito e vivente. Lo studio Kéré si trova in Germania, a Berlino, perché è qui che grazie a una borsa di studio si era trasferito per concludere prima il liceo e poi più tardi l’università; Schwarz in quel ritratto lo definisce an architect between, tra l’occidente e le comunità del suo Burkina Faso, ma anche, oggi è chiaro, nel mezzo di una carriera ancora in piena ascesa. 

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