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È ora di riconoscere che i mobili Ikea sono vero design

Sara Marzullo

Billy in cerca d'autore. Si è parlato tanto della funzione ‘democratizzatrice’ e del branding della compagnia svedese, ma è stata poco analizzata e quasi trattata con sdegno dalle università di architettura. Indagine sul colosso e sulle sue “istruzioni su cosa sognare”

Un po’ di anni fa, entrando nella cucina di un amico, gli ho detto che a casa mia avevo un tavolo identico; mi ha risposto ridendo che era lo stesso di chiunque: un modello molto comune prodotto da Ikea, bianco, con il piano opaco. Non serve descriverlo per poterlo immaginare: abbiamo tutti pranzato, studiato e lavorato sopra una delle sue innumerevoli varianti di colore o materiale. Ikea ha creato il déjà-vu senza sorpresa, la madeleine industriale – è il fenomeno globale che, per Icon, ha “prodotto la più importante trasformazione del design mondiale”, coordinando tra loro tutte le librerie Billy del pianeta; antonomasia di tutto ciò che è in serie ma non spiacevole, “solo” Ikea. 

   
Della funzione ‘democratizzatrice’ di Ikea si è parlato tanto, così del branding della compagnia svedese, che, dalle matite al catalogo, è diventata talmente iconica che qualche anno fa Balenciaga ha persino realizzato una versione di lusso della sua indistruttibile borsa di tela blu. Economisti, antropologi, specialisti del marketing, Ikea è stata studiata da tutti, ma perché per decenni è stata poco analizzata e quasi trattata con sdegno dalle università di architettura? Certo, c’è stato Virgil Abloh… ma sugli snobismi e le rimozioni indaga Rebecca Carrai, ricercatrice alla Ku Leuven, il cui progetto di dottorato è una contro-storia degli interni e di come facciamo casa, che parte dalla constatazione di un vuoto, dall’assenza di una discussione teorica su un fenomeno tanto ubiquo come quello della multinazionale svedese. Cosa sono però l’architettura e il design se non strumenti di trasmissione medianica della società e delle qualità culturali di un’epoca?

  

Forse il nodo sta nella genialità abitualmente attribuita al designer, contraddetta dall’intento commerciale di Ikea: se Billy è stata progettata da un addetto al marketing, può essere design? Certi elitarismi suggeriscono che il vero design è per pochi, difficile, esclusivo, mai per le masse insomma. Anzi è proprio dal momento della comparsa delle masse nel mercato che l’architettura ha manifestato il deliberato desiderio di diventare una disciplina misterica, per iniziati, incomprensibile, di mettere distanza tanto da arrivare a rimuovere la presenza umana dai rendering; l’architettura deve appartenere unicamente agli accademici. Questo non lo dice Carrai, ma lo hanno detto Giancarlo di Carlo o Gian Piero Frassinelli di Superstudio, che in “Design e antropologia” ricordava che per questo desiderio dalla memoria collettiva sono stati rimossi progettisti come Victor Papanek, che, buonanima, sosteneva che il buon design dovesse essere di tutti, economico e soprattutto replicabile. Papanek, come diceva un suo libro, voleva “Progettare per il mondo reale” (lo ristampa Quodlibet il prossimo luglio).

    
E a guardare da qui Ikea, ne viene fuori che la collaborazione tra designer (che il mobile lo disegna) e utente (che il mobile lo monta) possa apparire come segno di una certa dozzinalità di progetto: la raffinatezza complicata e ingegnosa, ecco cosa insegna ancora l’architettura, tutto il resto è fai-da-te. Le viti e i tasselli di legno sono peccati mortali,  Carrai nota, però, che lavori come “Imparare da Las Vegas” di Venturi e “Junkspace” di Koolhaas guardavano già alla crescente società postmoderna del consumo e ai fenomeni commerciali come argomento di studio architettonico. Uno scarto sufficiente per rileggere oggi l’influenza e onnipresenza di un certo socialismo scandinavo Ikea nelle nostre vite – e cucine e camere da letto? Perché è fin qui che arriva Ikea, a darci immagini e persino casette-modello in cui camminare, immaginarsi: l’Ikea non è solo un brand, ma anche un posto in cui andare a impersonare vite che non sono (ancora) la nostra. Se le esposizioni di mobili non sono una novità, certo che è diverso sdraiarvici sopra.

   
Chiunque abbia preso in mano un suo manuale di istruzioni, sa che Ikea descrive minuziosamente come costruire – dunque usare – i propri prodotti: ne norma le funzioni, al punto che nessuna vite può prendere il posto di un’altra. Nello stesso modo, per quanto siano diverse le sue rappresentazioni di famiglia (come nota Carrai, Ikea è un marchio che si è voluto distinguere come ‘woke’ già dagli anni 90) sono tutte immancabilmente borghesi, decorose, ben intenzionate. Ci dà le istruzioni su cosa sognare: sogni così reali e probabili che non puoi decostruirli, un po’ come certi mobili; se tutti gli eroi sono giovani e belli, vale anche per gli abitanti dei mondi Ikea. Contro l’appropriatezza d’uso, nel 2011 Andrés Jaque (un accademico, niente meno!) nella mostra “Ikea Disobedients” usava oggetti banali per immaginare spazi controversi, ne sottolineava la normatività per hackerarne il Dna e dare spazio a zone autonome, ibride e mutanti. Se Ikea ci vende una società e ci chiede anche di assemblarla, insomma, se non solo è parte del nostro paesaggio domestico, ma ne detta le regole, è il momento di iscriverla a pieno titolo nella storia del design. E’ così che iniziano le sovversioni.
 

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