Muore Richard Rogers, l'archistar che non amava la parola "high tech"

Michele Masneri

Ha costruito la sede dei Lloyd’s, gli aeroporti di Marsiglia e Madrid, i tribunali di Bordeaux e Anversa, il Millenium Dome, e con Renzo Piano il Beaubourg

Il più grande rivoltatore di edifici è morto tre giorni fa, per i postumi di una caduta. Richard Rogers, celebre per le sue elegantissime macchine abitative che facevano vedere l’interno come certi telefoni Swatch degli anni Novanta, era nato a Firenze nel 1933 in una famiglia ebraica molto anglofila.

 

Padre medico veneziano e madre ceramista triestina, prendendo il nome del nonno Riccardo Geiringer, dirigente – ovviamente -delle Assicurazioni Generali. Le leggi razziali del 1938 portarono la famiglia nella Londra ancora dominata dai fumi del riscaldamento a carbone, dove il giovane Rogers ebbe molte difficoltà in periferia anche per una dislessia non diagnosticata. (“come malattia  non l’avevano ancora inventata; mi chiamavano semplicemente stupido”). La boxe praticata en amateur impedisce gravi bullizzazioni.


Dopo la guerra per il servizio militare fu inviato nella Trieste occupata dagli alleati, potendo riabbracciare i suoi parenti materni. Dopo gli studi di architettura in cui si avvicinò alla cultura pop (leggendarie le sue camicie verde acido o rosa shocking), fa un’esperienza decisiva in America alla facoltà di Yale diretta dal brutalista-perfezionista Paul Rudolph, ma soprattutto incontra un altro studente inglese figlio di operai di Liverpool, Norman Foster: insieme girano il paese per visitare architetture celebri di Louis Kahn e Frank Lloyd Wright che saranno alla base dei loro progetti futuri. Insieme ad altri, fra cui la prima moglie Su Bromwell, fondano il Team 4 e per un po’ progettano edifici definiti “high-tech”, definizione che Rogers non amava perché, ripeteva, “anche la cupola di Brunelleschi era high-tech”.

 

Certo la struttura veniva prima di tutto, non era mai nascosta ma anzi sempre estrapolata ed esibita al contrario di quello che si fa comunemente. Edifici squisitamente marxiani, dunque, e le divergenze con Foster, anche politiche: la sua preoccupazione per i temi ambientali lo avvicinano a Renzo Piano insieme al quale vincono il concorso per il Beaubourg nel 1971, meno che quarantenni, primi tra 700 studi, creando una mitologia. Piano e Rogers, italiani ganzissimi, diventano subito i bad boys dell’architettura internazionale per l’irriverenza neofuturista di un edificio-macchina piantato nel centro di Parigi con gli impianti a vista vivacemente colorati come le loro camicie. “Non parlando il francese, sentii questa signorina che mi ripeteva “laureate, laureate”, per dirci che avevamo vinto, e io rispondevo sì, sono laureato al Politecnico, racconterà Piano. All’inaugurazione nel 1977, Roberto Rossellini consigliò ai due architetti non di guardare i due edifici, ma di guardare gli occhi della gente che guardano gli edifici. Detto fatto,  “una volta sotto la pioggia davanti al Beaubourg dissi a una turista che l’avevo disegnato io, e mi prese a ombrellate”, raccontò Rogers. 

 

La continuità richiesta da suo cugino Ernesto Nathan Rogers sulle pagine di “Casabella”, Richard la trovava più con Le Corbusier, Pierre Chareau e Jean Prouvé che con il gotico milanese che riprende la Torre Velasca. Da sempre laburista, ha fatto parte dei movimenti per i diritti civili e le lotte sociali post 1968, e proprio in una manifestazione conosce Ruthie Elias, attivista figlia di immigrati ebrei, che diventa la seconda moglie. Ha costruito edifici fondamentali come la sede dei Lloyd’s, gli aeroporti di Marsiglia e Madrid, i tribunali di Bordeaux e Anversa, il Millenium Dome, con uno studio associato che ha brillato per le regole interne (il primo a dare permessi di maternità e paternità ai dipendenti) ed esterne (niente clienti tra chi traffica in armi, eccetera).


Negli anni ‘80 e ‘90 le lotte di Rogers sono state spese per migliorare lo spazio pubblico di Londra, non solo con la sua battaglia (vinta) per la pedonalizzazione di Trafalgar Square, ma anche per quella (persa) del recupero integrale del waterfront sul Tamigi: proprio qui Ruth ha aperto il River Café, tempio degli champagne socialist in generale e della cucina italiana in particolare a Londra, rinnovata ogni estate con lunghi soggiorni vacanzieri a Pienza (e oggi gestisce un podcast di cucina fondamentale).  


Lo spazio pubblico, A place for all people come titola la sua autobiografia (pubblicata in italiano da Johan&Levi) è stato il filo conduttore del suo impegno architettonico e politico, culminato con la nomina a barone Rogers di Riverside e dunque al seggio nella camera alta e alla guida della urban task force laburista da parte di Tony Blair; con enorme scorno del suo avversario pubblico principale, il principe Carlo, infaticabile nemico dell’architettura moderna.  
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).