Casa del popolo di Como, progettata da Giuseppe Terragni (Wikimedia)

Terrazzo

La guerra dei Terragnez

Manuel Orazi

La parabola intellettuale di Giuseppe Terragni: le opere, l'architetto e il fascismo, la guerra e la campagna di Russia. Fino al ritorno in Italia e all'elettroshock

Alcune delle figure capitali del Novecento sono state compromesse con i fascismi: è così in Germania (Martin Heidegger, Carl Schmitt), in Francia (Louis-Ferdinand Céline), in Norvegia (Knut Hamsun). In Italia si farebbe prima a rovesciare il ragionamento, quali sono gli intellettuali non compromessi con il fascismo? Fra le due guerre sono stati espressi decine di grandi architetti, uno su tutti Giuseppe Terragni la cui parabola intellettuale è coincisa interamente con quella del regime, visto che era diciottenne alla marcia su Roma e che morirà pochi giorni prima del 25 luglio del ’43. In seguito sono stati tre ebrei a rivalutarne l’opera, dopo un più che comprensibile periodo di rimozione storica nel dopoguerra: nel 1957 Ernesto Nathan Rogers riteneva che la sua azione modernista, offrendo un’alternativa allo stile retorico del regime, avesse salvato l’architettura italiana “in un’oasi di verità dalla quale potrà proseguire il suo cammino senza rinnegarsi”, tanto da intitolare la rivista che dirigeva Casabella-Continuità, appunto; quindi Bruno Zevi da un lato e Peter Eisenman negli Usa dall’altro, fornirono nuove interpretazioni alternative.

 

Dopo la grande mostra alla Triennale di Milano del 1996 curata da Giorgio Ciucci, il quadro interpretativo sulla sua opera non si è modificato di molto. Ora Valerio Paolo Mosco si concentra sull’ultimo periodo della vita con un saggio crepuscolare: Giuseppe Terragni: la guerra, la fine (Forma edizioni, € 20). Il volume procede temporalmente dal settembre 1939, inizio della Seconda guerra mondiale che coincide con il servizio militare di un Terragni trentacinquenne. Le opere realizzate (Casa del fascio, Asilo Sant’Elia, Villa del floricultore) sono alle spalle, rievocate dai molti flashback della prima parte del testo, quando Terragni parte militare resta in piedi solo la Casa Giuliani-Frigerio che la committente deride e critica interrompendo i pagamenti anzitempo perché troppo cervellotica e difficile da comprendere – del resto sembra un’architettura degli anni 50, non è facile da capire nemmeno oggi: la signora allora preoccupata di affittare in fretta i locali non aveva tutti i torti. Restano in piedi alcuni progetti strepitosi (Nuova Accademia di Brera, Danteum, Casa del fascio a Portuense-Monteverde), ma la narrazione viene sempre di più incalzata dagli eventi bellici.

 

Dopo due anni il tenente Terragni è rimandato in patria dalla disastrosa campagna di Russia con uno degli ultimi treni della Croce rossa, la famiglia lo riporta a casa dove dà in escandescenze. Il fratello Attilio, già podestà di Como, decide di sottoporlo a una nuova cura: l’elettroshock. Dopo varie sedute, l’architetto è svuotato e assente, manifesta la sindrome del sopravvissuto, è convinto che l’Italia possa ancora vincere la guerra, chiede a tutti perdono finché muore improvvisamente a trentanove anni. Mosco ha il merito di valorizzare le ultime preziose fotografie di Terragni, scattate faticosamente nelle rare pause dell’avanzata al seguito della Wehrmacht, nonché a restituire un racconto a tratti coinvolgente che coniuga architettura, storia e biografia attraverso un’oculata scelta delle lettere del protagonista e delle testimonianze disperse dei suoi molti amici illustri (il gallerista Pier Maria Bardi, l’architetto Alberto Sartoris, il pittore Manlio Rho, il filosofo Franco Ciliberti).

 

Queste però sono spesso contraddittorie fra di loro e così Mosco finisce per alimentare molte mitologie sedimentatesi intorno a Terragni, ad esempio quella sulla malignità dell’ex socio Pietro Lingeri, grigio professionista che tramerebbe alle sue spalle, mentre molte prove dimostrano il suo impegno intellettuale e come cercasse di sopperire come poteva all’irruenza di una figura tanto visionaria, intransigente e impratica. Mosco dichiara nella premessa di voler individuare un ritratto psicologico della personalità di Terragni, che però resta sfuggente: “Come nella sua pittura e nella sua architettura anche nelle fotografie le diverse personalità di Terragni sembrano sovrapporsi una sull’altra eludendo la loro incongruenza”.

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