(foto LaPresse)

Terrazzo

Not in my name, a Milano

Giulio Silvano

Solo poeti e scrittori morti da molto tempo hanno diritto a vie e piazze in zone centrali. Misteri e dolori di chi è finito in periferia

Non è divertente mandare cartoline a un amico anarchico che vive in corso Umberto I? E’ immorale comprare casa in via dell’Ambaradan? Quanto ci vorrà perché i giovani si dimentichino di storcere il naso passando in piazza Craxi? Tante domande di recente sull’odonomastica, terreno fertile di lotte ideologiche. Si spulciano gli stradari per far liste di prescrizione di nomi di viali e piazze e slarghi e vicoli, si mettono in discussione monumenti di guerrieri e monarchi, navigatori e trasmigratori alla ricerca di colpe e condanne retroattive inadatte allo Spirito del Tempo. Mentre in America e in Inghilterra cadono le statue degli schiavisti, da noi si butta un po’ di vernice rosa sulla testa liscia di giornalisti pedo-colonialisti del Corriere. E poi tutti al Pincio a contare quante poche donne ci sono tra i busti di chi ha reso illustre il paese. I nomi delle fermate della metro oggi triggerano. Prefetti che bloccano titolazioni e dichiarazioni preventive dei sindaci. Giorgio Almirante ormai più famoso per questi tira e molla tra nostalgici e amministrazione comunale che non per la sua carriera di post-fascista: “A Roma niente strade intitolate al segretario del Movimento sociale”, diceva Raggi. La stessa che poi ha sbagliato a scrivere il nome di Ciampi (il governo degli onesti non ha tempo per lo spell-check. Ma le figuracce almeno creano bei meme). 

Va pure bene che la scelta delle vie diventi specchio del discourse, ma è fastidioso che i dibattiti sulla toponomastica cittadina si sviluppino sempre intorno a figure di partito o a secolari simboli di un mondo che non c’è più. La letteratura viene data per scontata. Nessuno che si adiri mai per la posizione in cui finiscono a esser celebrati i letterati. Se pensiamo a Milano, sono fortunati certi poeti e autori che son riusciti a finire in centro come Manzoni, con quei palazzi, e ancora di più il Tasso in una bella via di villette e glicini. Giorgio Byron almeno è all’ombra dei faggi e degli ippocastani di parco Sempione ed Émile Zola si gode un bel viale boschivo di fronte alla Triennale. Ma sembrerebbe che per capitare in luoghi ameni sia necessario esser morti da qualche secolo – fa eccezione, per motivi di prossimità abitativa, Alda Merini. Alla poeta è stato dedicato un ponte (grande flex) sui Navigli intasato da instagrammer alla ricerca di un bel tramonto riflesso. 

Perché oggi nessuno si chiede se i luoghi scelti per creare memoria sempiterna di gloria letteraria siano – semplicemente – belli? E con bello non si intende certo il decoro, concetto elettoral-conservatore per creare lotte tra sciure e ragazzini con lo skateboard. No, bisogna chiedersi se siano adeguati al nome della persona che dovrebbero ricordare, se si sposino con la sua visione del mondo, con la sua poetica! Dedichi tutta la vita alle lettere, all’armonia, e finisci in mezzo al traffico. 

Uscendo da Milano verso est, direzione Linate, a un certo punto nel vialone a sei corsie, tra i fumi grigi di Suv e furgoncini, tra vecchie rotaie in disuso e guard-rail, appare su una targa marmorizzata il nome dell’influentissimo autore della nostra infanzia: Gianni Rodari. Cosa ci fa lì, mi chiedo ogni volta, perché gli hanno dedicato quel “largo”, quel triangolino di asfalto nero crepato di fronte a una clinica iPhone e a Domino’s Pizza? Ci vorrebbero cori di “ci vuole un fiore, ci vuole un fiore” sotto quelle palazzine anni Settanta, eppure nessuno s’indigna. Se resta il mistero di questa dedica, conosciamo invece i motivi di quelle nei pressi di viale Pasubio.  Intorno al progetto piramidale degli eredi del partigiano Feltrinelli –  creare un’anti-Segrate “di sinistra” dentro la circonvallazione – si è deciso di omaggiare autori che hanno reso grande la casa editrice. Lo slargo all’ingresso dell’edificio puntuto di Herzog è intitolata a Sibilla Aleramo, mentre – finiti i lavori – la piazza verso porta Volta verrà consacrata a Tomasi di Lampedusa, dovevano davvero amare l’asfalto e la cacofonia… E poi viale Boris Pasternak, pedonale, incastrato tra il cemento e il riflesso delle 1224 finestre, che prima che facessero un praticello tra stradone e palazzone, era considerato dai dipendenti della casa editrice e di Microsoft il posto più caldo di Milano – ci si potevano cuocere le uova, come si vede fare nei reel sui cruscotti delle Ford nel Nevada. 

Nel grande piano di trasformare Milano in una città europea degli anni Novanta, per lo spazio tra le torri Hadid-Isozaki-Libeskind e i condomini postmoderni di CityLife la scelta è andata su Elsa Morante, scrittrice testaccina che amava “i bambini, il mare e i gatti”. Più che piazza uno spiazzo con fontana liscia e alberelli costretti nella pavimentazione grigia. Un luogo di passaggio tra residenze e shopping. Un po’ outlet di Serravalle Scrivia un po’ Milano 2. Quel senso del nuovo-bello che Byung-Chul Han chiama estetica della levigatezza e che accomuna “Jeff Koons, l’iPhone e la ceretta brasiliana”. Morante amava Napoli, perché “ha una stupefacente capacità di resistere alla paccottiglia kitsch da cui è oberata, una straordinaria possibilità di essere continuamente altro rispetto agli insopportabili stereotipi che la affliggono”, cosa che di Milano purtroppo non si può dire. Il sushi e il poké e il brunch hanno scalzato nell’immaginario la cotoletta. Lo Starbucks di Cordusio è diventato subito identitario, come se la città fosse una tabula rasa e il cliché vanziniano di una New York wanna-be si trasformasse in accettata gag tra i suoi residenti.  Questi sono solo alcuni esempi milanesi, ma si potrebbe fare un giro dell’Italia, un gran tour topografico a osservar i postacci dove son finiti i nostri poeti e poetesse preferite e chiedersi perché la bellezza non sia più una questione politica. 

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