Mediterraneo torinese

Michele Masneri

Mollino, i suoi arredi, e una vita dannunziana ma non troppo.  Zanotta mette in produzione otto omaggi al più bizzarro dei designer italiani

Torino è una città che ha sempre generato “mostri”: grandi industriali e maghi, sindacalisti e antiquari, in ogni caso sempre “soggetti”, mai in nessun caso mediocrità. Ha generato anche Carlo Mollino (1905-1973) che sembra incarnare queste diverse anime: designer metafisico-mefistofelico, con fama da tombeur e flâneur. Figlio unico del severo architetto Eugenio, un altro vogherese di stanza nella capitalina subalpina (come Franco Antonicelli, cugino di Arbasino e istitutore liberale dell’Avvocato). Disegnerà case private, teatri, condomini, e soprattutto mobili con un che di peccaminoso-antropomorfo. Re delle case d’aste, i suoi pezzi si battono per milioni a ogni tornata, come quella di Christie’s che alienò gli arredi del marchese  Vladi Orengo (ma poi, anche, fondamentali edifici pubblici come l’Auditorium Rai di via Rossini insieme ad Aldo Morbelli, la sede della Società ippica torinese poi demolita, il palazzo degli Affari e il teatro Regio.

 

Oggi Zanotta lo celebra con un omaggio di otto pezzi aggiornati alle migliori tecnologie, e un catalogo-libro scintillante a specchio,  “Carlo Mollino Designs”, Di Pier Paolo Peruccio e Laura Milan (Quodlibet) che forse sarebbe piaciuto a questo rovinatore delle “nobili cadenze accademiche con disegni turbolenti e fotografie blasfeme” secondo la definizione di Bruno Zevi. 

 

Alla critica e all’accademia non piacevano il dannunzianesimo, la ricchezza di famiglia, lo scarso allineamento, il gusto  di bellezza e bizzarria:  Mollino è un D’Annunzio montanaro, dunque privo del tocco meridiano delle tamerici salmastre e aspre, delle idiozie da bagnasciuga (però, baffone da maschio alfa, epica della conquista muliebre).  E’ come se D’Annunzio avesse sfidato a duello Adolf Loos. Dunque piuttosto un Gio Ponti  sciatore, mediterraneo rispetto ai nordeuropei-milanesi Castiglioni, Magistretti, Mari (ma, come Ponti, preso sottogamba, in quanto considerato fru fru); e seguace del resto di Benedetto Croce. Postmoderno, come un anticipo di Zaha Hadid o Marc Newson o Ron Arad, tra bombature e rivettature aeronautiche-automobilistiche (è naturalmente corridore di terra e d’aria). 

 

Alla base, il surrealismo, con le sagome dei suoi oggetti antropomorfi e muscolari (nel suo archivio si troveranno numerose edizioni della rivista “Minotaure”, manifesto del movimento negli anni Venti in Francia). E poi la passione per la montagna  – sci, velocità, analisi del rascard valdostano, mobili vernacolari, fotografie celebri delle traiettorie degli sci sulla neve; addirittura una “Introduzione al discesismo” (1950), manuale di sci alpino di 330 pagine che contiene capitoli intitolati “Timidezza e strafottenza in sci”, “Motivi di modestia” e “Importanza della laminatura metallica prolungata alle spatole”. E poi  fotografo, e reporter (anche, una corrispondenza dall’Expo di Osaka del 1970).

 

 

 

Mai veramente “industrial”: sempre dedito piuttosto a un grandioso artigianato per altissime borghesie eccentriche e internazionali di cui si fa interprete sartoriale ma non subalterno. Nel 1943 un tentativo di normalizzazione, in occasione del concorso Garzanti indetto dalla rivista “Stile” diretta da Ponti, con mobili vagamente Mad Men, e che però mantengono sempre l’anima animalesca, insieme al fantasma del barocco che aleggia costantemente e sembra vedere lo Juvarra (ispiratore poi del Regio) tenergli una mano, o un piede, sulla spalla (e in una lettera a Zanuso: io non critico te ma la tua poltrona, che è profondamente sbagliata perché non nasce dal “desiderio amoroso verso colui che vi si siederà”. Lui, invece, il desiderio lo insegue. 

 

Desiderante come si può esserlo a Torino, come si può esserlo con questo nome, Mollino, come i Gobino del cioccolato: dunque desiderante-industrioso. Sul numero 238 di Domus del 1949 Ponti  sottolinea come Mollino disegni “accanitamente, come un costruttore di macchine fantastiche perfeziona un telescopio o una catapulta, oppure un allevatore seleziona una specie; i suoi nuovi prodotti si aspettano con la curiosità di vedere quali nuovi esseri bizzarri, nervosi, intelligenti e maniaci egli ha messo al mondo, quali nuovi incroci egli abbia creato della sua fantastica razza”.

 

Otto i tributi di Zanotta, in un periodo che copre ventun anni, dal 1938 al 1959: ci sono il comodino Carlino, con una gamba sola,  lo specchio Milo, sagomato come una venere, sospeso con nottolino; la seduta Ardea, a metà tra un sinuoso tronetto e una poltrona da formula uno. E la Fenis, una sedia alpina, disegnata nel ’59 per il Castello del Valentino, sede del politecnico dove fu ordinario di composizione architettonica. Emblematica e programmatica, a forma allungata e scarna e vagamente inquietante (c’è tutto, il rifiuto del funzionalismo pur in ammirazione distaccata di Le Corbusier, l’attenzione all’architettura spontanea o vernacolare, e dunque qui alpina).  Tutto modernissimo anzi post-moderno (di qui la fortuna anche e soprattutto postuma, e le quotazioni fantasmagoriche e il culto elegantissimo di una nicchia che ormai però tende pericolosamente alla massa). 

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