No, il girello no

Michele Masneri

La questione dei banchi di scuola e il silenzio del mondo del design: un’occasione anche per Milano e il mondo produttivo. Ce la faranno?

Forse il segnale che è tutto davvero finito sta in questo, non tanto nei dati economici e nell’autunno come si vuole “caldo” che ci aspetta dopo il mese di vacanza previsto per costituzione materiale. Il segnale che l’Italia col suo made in Italy e con – procedendo per stereotipi – il suo sistema paese è definitivamente bollito lo si vede nell’impossibilità di aprire le scuole, e di arredarle. Al di là della politica, qui è una questione di spazi, una questione architettonica. Si è fatto un gran parlare, infatti, durante il cosiddetto lockdown, delle città e di come cambieranno, degli spazi urbani da salvare e di quelli invece ormai inservibili: ogni urbanista anche molto minore ha detto la sua. Non c’è architetto da Bolzano a Canicattì che non abbia espresso una visione, una suggestione, una elucubrazione. Che non abbia, poi, presentato un suo prototipo di armadio disinfetta-vestiti o di séparé in plexiglas o di arredo per spiaggia o ristorante (alcuni seriamente, altri furbescamente per andare sui giornali, comunque in un circo giocoso e gioioso di sperimentazioni playful).

 

Sulla scuola, invece, architetti e designer tacciono. Nessuno avanza la minima proposta: neanche uno straccio di progetto. Eppure basterebbe poco, pare di capire. O si allargano gli spazi, o si studiano banchi più agili. Non sarà allora la volta buona per le celebri caserme disabitate, che a ogni nuova legislatura ci si affretta a voler “convertire”, o vendere, come preziosi ritrovati, senza che ci sia mai stato poi a memoria d’uomo alcun acquirente interessato? Non si potrebbero riutilizzare per esempio quei mammozzoni militari, almeno temporaneamente? Certo servirebbe riadattarli, ma dove sono tutti i grandi teorici del “rammendo” e delle riqualificazioni?

 

Ma è poi sull’altro fronte, quello del micidiale banco, che è ancora più evidente il coma culturale. Negli ultimi giorni, la politica è stata, come dire, coerente, col suo essere al di sotto di ogni sospetto. “Se non arrivano i banchi richiesti vuol dire che l’offerta non ha raggiunto i livelli qualitativi e quantitativi rispetto alla domanda formulata”, ha detto Arcuri in questo lessico ormai surreale tra Keynes e Don Ferrante (come l’Alitalia che deve essere rifinanziata per “entrare in una competizione uniforme”, uniforme Alberta Ferretti verrebbe da dire). Ma accanirsi sulla politica sarebbe fuorviante; del resto, non è mai stata il punto di forza del Paese, paese semmai vocato e specializzato in altri settori più “soft”, il bel canto, l’artigianato, l’intrattenimento, e il design. Ecco, il design. Se la politica in fondo poche volte è stata superiore al “livello Arcuri”, diciamo un livello da Mercatone Uno, da Mondo Convenienza, il design ci ha resi invece il paese del Salone del mobile, del Compasso d’oro, della Brianza distretto industriale, Silicon Valley della poltrona e del tavolo: e davvero ora ci ritroviamo in ginocchio di fronte all’orrido triciclo?

 

Facciamo finta che tutto vada liscio, che gli sventurati ragazzini possano rientrare a scuola, che le gare arcuriali (gli “arcuriali” sembrano dei giochi o delle olimpiadi di regime) vadano a buon fine. E dunque a settembre gli incolpevoli ragazzini si troveranno seduti su quegli orridi seggiolini semoventi. Davvero non siamo riusciti a far meglio di questo? Parlo del mondo produttivo: davvero nessuna azienda, a parte i numeri e le forniture e i protocolli, riesce a tirar fuori una soluzione più fantasiosa (e decorosa?). Allora ha ragione chi dice che tutto il sistema del design è andato da un bel pezzo. Chi sostiene che in fondo i grandi marchi del settore sono dominati da fondi esteri più interessati al fatturato che al prodotto: e le innovazioni son solo tecnologiche (la scorpacciata di led e dei suoi derivati degli ultimi anni). E le riedizioni di oggetti del passato sono la norma. Quando si parla di design italiano si parla infatti in realtà di designer morti: è tutto un anniversario, una retrospettiva, una memoria. Solo nell’ultimo anno, ecco le grandi mostre sul defunto Gio Ponti, e i centenari per Vico Magistretti. Geniali progettisti italici che celebravano la funzione oltre alla forma. Ma che avrebbe detto il povero Magistretti dell’incapacità del paese di dotarsi di banchi da scuola singoli, statici o semoventi? Magari con ruote? E i fratelli Castiglioni, dioscuri dell’italian anzi milanese design, che prendevano sedili da trattore trasformandoli in poltroncine fichissime e ready made, e fari di 127 nella lampada più cool del Dopoguerra? Si rivolteranno certamente nella tomba. Il design italiano è stato da sempre caratterizzato, rispetto ad altri colleghi e omologhi, da un elegante funzionalismo e da una praticità anche di contatti. “La funzione, che bel decoro”, diceva Achille Castiglioni. Magistretti in una vecchia intervista a Ugo Gregoretti disse invece che il suo successo nasceva dall’avere lo studio al piano strada, così l’imprenditore-committente si affacciava, e si parlavano alla finestra. Il rapporto tra imprenditore e disegnatore è infatti quello che ha reso grande il design del Dopoguerra. Non si disegnava a caso, si andava in azienda e l’industriale (nomi mitici come il Busnelli) diceva: voglio un divano così e così, usiamo questa schiuma invece di quest’altra, eccetera. Tutta questa contaminazione dov’è oggi? E poi: anche la Milano ancora sotto choc dal Covid e dalla relativa marginalizzazione: potrebbe buttarsi sul progetto delle scuole come ottima occasione per dimostrare di esserci, invece di preoccuparsi per il prossimo Salone e fuorisalone coi prosecchi. E anche per far dimenticare le magagne gestionali sanitarie e politiche.

 

Tra tutte le università e accademie fiorite negli ultimi anni, poi, possibile che non ci sia nessuno studente o professore in grado di tirar fuori un progetto facile e fattibile alternativo al triciclo di Stato? Con le progettazioni 3D e i materiali riciclati con cui ci hanno ammorbato negli anni (e in Rete gli esempi abbondano, banchi in cartone o plastica, semoventi, riciclabili, ecologici; certo destinati a paesi in via di sviluppo, dà da pensare). Idee, anyone? Forse il banco di scuola come oggetto evidentemente non è cool (oppure avranno paura, giustamente, a buttarsi in micidiali commesse della pubblica amministrazione?). E però, uno sforzo sarebbe gradito. Dove sono i Formafantasma? Le Patricie Urquiola? Se tutto va bene, e le scuole riapriranno a settembre, dovremo davvero costringere una generazione a studiare su quegli orrendi girelli, educando al gusto di una poltroncina di plastica appoggiata a un carrello del tipo semovente per anziani? Occhio, i bambini ci guardano (e guardano, soprattutto, vabbè).

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